venerdì, Novembre 22, 2024

Beuys di Andres Veiel – Berlinale 67, Concorso: la recensione

Documentarista di vaglia con una sana ossessione per gli aspetti disfunzionali della storia contemporanea tedesca (occidentale), Andres Veiel riesce a trasformare ogni progetto in un evento. Sono ormai trascorsi sei anni dallo splendido “Wer, wenn nicht wir” (2011), biografia del fragile e visionario scrittore Berward Vesper, vicino agli ambienti della RAF nonché figlio d’arte (Will Vesper era un autore molto fedele al nazismo). Con Beuys, Veiel conferma il proprio interesse a raccontare figure tedeschissime e possedute – dal demone della politica, da un’urgenza espressiva. In questo caso, artistica. Il terrorismo di “Black Box BRD” (2001) e il neonazismo di “Der Kick” (2006) restano fuori da questo suo ultimo documentario, malgrado le pulsioni antisistema di Beuys e le sue simpatie per l’antroposofia lo rendano senza dubbio una figura paradigmatica nella ricerca di Veiel.

E che ricerca. Più di tre anni di lavoro, 18 mesi di montaggio e una mole di materiale visionato composta da 20.000 foto e centinaia di ore di filmati e audio. Inizialmente, il materiale d’archivio avrebbe dovuto occupare il 30% del film. La copia presentata in concorso a Berlino ha un 95% di repertorio e un 5% di “teste parlanti”. Cinque le persone intervistate, tutte vicine a Beuys, e tra di esse un solo artista, o meglio polemista, quel Klaus Staeck che da decenni irride il potere confezionando finti manifesti elettorali.

La buona riuscita del documentario è prima di tutto merito di Monika Preischl, che si è occupata delle ricerche d’archivio, e dei due montatori Stephan Krumbiegel e Olaf Voigtländer, artefici di un’impresa altrettanto titanica. Il film si tuffa letteralmente nell’archivio, prendendo spesso come spunto le fotografie, e traccia un profilo chiaro, a tutto tondo, della figura dell’artista. Dalla gioventù hitleriana – Beuys è nato nel 1921 – alla Luftwaffe e al leggendario incidente in Crimea, passando poi per gli anni di depressione post-bellica, gli acquarelli, le molteplici partecipazioni alla documenta e il boom mediatico che lo rese una sorta di Andy Warhol europeo – non per il tipo di produzione, ma per l’aura, il carisma, la presenza. E una naturale propensione allo scandalo che pochi artisti hanno saputo replicare dopo la sua morte (Hirst? Cattelan?). Infine, l’elemento politico. La voglia di democrazia diretta, il contributo alla fondazione dei Verdi e la sua successiva estromissione da un partito diventato partito, pronto più per il Bundestag che per le barricate.

Una delle immagini più spiazzanti del documentario vede Beuys fare campagna elettorale nel 1979 distribuendo “programmi verdi”. Liebe Frau, chiede a una passante, se le faccio un disegnino sul foglio ci vota? Per un artista estraneo al compromesso, loquace ma isolato, che quando va in America invece di Warhol incontra un coyote (“I Like America and America Likes Me”, 1974), si tratta di un gesto sintomatico. Il documentario di Veiel ne dissotterra molti.

Viste con gli occhi di oggi, le lavagne scarabocchiate da Beuys con strali diretti al capitale e ai rischi dei flussi globali di danaro suscitano un duplice effetto: profetico, e vagamente populista. Veiel non ha dubbi in merito e punta tutto sulle qualità profetiche di Beuys e la sua assordante attualità, lasciando come uniche voci dissonanti quelle di ministri spazientiti, borghesi piccati e baroni cattedratici. Va detto che la Germania Ovest dell’epoca (non Berlino: Bonn), la stessa della Katharina Blum di Böll, era conservatrice fino al midollo. Per quasi vent’anni, Beuys ne è stato il controcanto perfetto. Un Rudi Dutschke più durevole e telegenico.

Nel documentario di Andres Veiel non mancano ovviamente il feltro, gli ammassi di grasso, le 7000 querce piantate a Kassel. Ma a colpire è soprattutto la fisicità dello sciamano, i suoi sorrisi, il match di pugilato su videotape consumatosi alla documenta. Lo sguardo fulminante che conclude il film. A trent’anni dalla morte, Joseph Beuys è meno musealizzato che mai. Nuovi schermi e nuove platee lo attendono.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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