Quarta ed ultima giornata per il Ca’ Foscari Short film festival, quinta edizione. Gli ultimi cinque corti del concorso internazionale si muovono attraverso la Storia; individuale, famigliare, collettiva.
Il rapporto dell’individuo con i grandi eventi del proprio paese è al centro del film diretto dall’indiano Shamik K. Rakshit. Key Square segue le giornate di un giovane attraverso la Kolkata degli anni settanta, alla vigilia dell’insediamento del nuovo regime militare; incurante dei mutamenti storici che lo circondano, percorre le strade della città senza capirne i segni, senza guardare veramente le persone e il brulicare della vita urbana tra rivolta e povertà; tutti i giorni incontra una vecchia mendicante seduta con la schiena appoggiata ad una parete e le gambe stese; come se fosse un gioco, le scavalca e passa oltre. Tra lo studio, un rapporto sereno con i genitori e le partite a scacchi con il suo migliore amico, mentre comincia ad incendiarsi il fermento politico, il ragazzo continua a vivere senza che niente e nessuno modifichi la sua percezione della realtà. Quando la vecchia scomparirà e l’amico fraterno sarà ucciso dai militari, gli oggetti e la realtà urbana assumeranno un significato diverso. Ed è proprio su questi elementi che Shamik K. Rakshit si sofferma; il vinile e il libro lasciati in eredità dall’amico morto, tre persone che uccidono un uomo inerme, la gente sugli autobus, le insegne della città, l’aria e il movimento delle persone, tutti aspetti che trasformano il vagabondaggio del ragazzo in una vera e propria flanerie, dove le azioni ripetute e i percorsi già battuti non sono più gli stessi. Dentro il libro di Stalin lasciato in dono si nasconde una pedina degli scacchi; ambientato negli anni in cui Satyajit Ray girava “I giocatori di scacchi”, sembra assumere lo stesso punto di vista politico: “quando mantieni gli occhi puntati sulla scacchiera, non ti accorgi di nient’altro”. La moneta lasciata sul piatto della mendicante e il rifiuto di lottare con mezzi violenti, sembrano per Shamik K. Rakshit indicare l’unica scelta possibile per il protagonista del suo corto, sulla linea della stessa critica alla neutralità che Satyajit Ray immaginava alla fine degli anni settanta.
Potrebbe essere la mitteleuropa dei primi del novecento quella di Das Alte Bose Wir, il corto diretto dalla tedesca Lily Erlinger, ma il villaggio ai margini della foresta in cui è ambientato fa pensare ad una via di mezzo tra il rigore riformista di Das weiße Band e la comunità chiusa immaginata da M. Night Shyamalan nel suo “The Village”. Una setta legata da alcuni principi di solidarietà, mantiene l’equilibrio dello stato sociale nominando dei custodi di pace in base ad alcune gare di nuoto allestite per stabilire gerarchie e ruoli. Allo stesso tempo, attraverso un rituale non precisato, alcune persone della comunità vengono scelte e condotte all’interno della foresta, come agnelli sacrificali. Girato in un bianco e nero che vorrebbe riferirsi al cinema di Dreyer, il film della Erlinger immagina il lento e inesorabile compimento della Storia attraverso un percorso di corruzione e sopraffazione; la nascita del potere attraverso l’invenzione mitica di una radice condivisa, quella della menzogna utopistica.
Nel corto di Mathieu Volpe intitolato Il segreto del serpente, la documentazione antropologica tra Puglia e Basilicata racconta di una relazione condivisa tra luoghi e individui, opposta alla coincidenza tra utopia e distopia in Das Alte Bose Wir. Le sedimentazioni vegetali tra le pietre, i sassi, le impronte di un passaggio arcaico, gli affreschi, i reliquiari e le vecchie che pregano in un paesaggio arido. Tra fotografie, vecchi girati in super8 e la documentazione intesa come testimonianza di un transito, la voce narrante è alla ricerca di un volto conosciuto, un’amante invisibile che rimane comunque tra le immagini: cosa resta del tuo volto in queste strade? E questo paese, ti dimenticherà? Sono gli interrogativi indirizzati internamente ed esternamente rispetto ad un contesto soggettivo, per affermare l’esperienza dello sguardo come origine della Storia. E tra le fotografie che congelano le preghiere delle donne anziane in una postura ancestrale, come se fossero mummificate, si contrappone una diversa idea di immagine, legata al valore della memoria; questa scompare davvero quando viene il nero?
Erledigung einer sache – The Last Will del tedesco Dustin Loose ancora una volta affronta il concetto di Storia e memoria come mistificazione, ma da un punto di vista famigliare; un giovane è vissuto fino ad ora nel ricordo di una genesi criminale; il padre, rinchiuso da cinque lustri in un manicomio, sconta l’omicidio del fratello per un raptus di gelosia nei confronti della moglie.
Quando il figlio lo andrà a trovare, si confronterà con il medico dell’istituto raccontando una seconda versione dei fatti, rovesciando completamente il senso di quello che abbiamo visto fino a questo momento. The Last Will si basa su una messa in scena tradizionale, legata principalmente al dialogo e al confronto speculare, servendosi di un sottile slittamento di ruolo dei personaggi; basandosi sull’idea di rispecchiamento, l’autore tedesco trasforma un dialogo terapeutico in una confessione, fino alle estreme conseguenze, quelle che riveleranno la storia famigliare come una menzogna radicata nel tempo.
Ed è proprio l’immagine del tempo quella che apre Le bruit des rails, la produzione Franco-Spagnola diretta da Lucien Burckel de Tel dove in una stanza vuota, una ragazza guarda un orologio collocato appena fuori da uno stipite senza porta; un’immagine quasi magrittiana, una delle tante in questo breve corto con numerose citazioni surrealiste, a partire dalla dimensione onirica che lo tiene insieme.
Dalla morte alla tua vita, dalla tua vita alla mia morte, dovrebbe esserci un solo passo, dice la voce della ragazza che vediamo all’inizio. Un’amore defunto, quello che sogna il ragazzo insonne; il rumore assordante dei treni vicini alla finestra della sua camera, causa di profondo terrore. Solo il ricordo di lei e la presenza quasi tangibile del suo corpo durante un amplesso, saldano il passaggio dal buio alla luce, nella dimensione dolce e terrifica del siamo già stati.