Lo ha raccontato durante una recente intervista la stessa Marissa Viani Serrano Ocampo; per l’artista messicana il cinema consente “di mostrare tutto quello che non è possibile vedere nella vita reale“, una dichiarazione di intenti molto precisa e che colloca i suoi lavori, spesso a metà tra cinema sperimentale e installazione concettuale, in quella dimensione visionaria legata anche alla tradizione del suo paese e che rimane sospesa tra surrealismo e realismo brutale, astrazione fantastica ed erotismo carnale. Se l’invisibile, nei lavori della Ocampo, si riferisce spesso al mondo dell’occulto, questo viene costantemente indagato attraverso gli interstizi del reale, a partire da quella tradizione Mariana legata alla ritualità cattolica messicana, improvvisamente riletta attraverso una nuova ambivalenza simbolica, tra devozione e la nascita di una dimensione cultuale autoctona, maggiormente legata alla terra.
Se nei primi cortometraggi, tutti realizzati in 16mm e 8mm, la Ocampo ha lavorato sulla figura femminile a partire dalla rappresentazione dell’infanzia, mutuando alcune strategie narrative da quelle della fiaba, dove personaggi sperduti nel bosco o in ambientazioni misteriose, affrontano la sostanza delle proprie paure, nelle successive sperimentazioni legate all’iconografia religiosa, ha proseguito su questa strada confondendo le origini del culto con quelle della propria ricerca identitaria, tra sciamanesimo e liberazione della sfera desiderante.
“El hombre que se rescató a la princesa di Marissa” è un cortometraggio con una forma apparentemente più narrativa del solito, ma letteralmente spaccato in due; nella prima parte, Daniel, un seminarista impegnato nel percorso di preparazione al sacerdozio, ha delle costanti visioni che coinvolgono una figura femminile vicina agli ambienti della chiesa; quando i suoi superiori si accorgeranno delle sue inclinazioni, lo spingeranno ad affrontare un ritiro spirituale che assumerà al contrario le caratteristiche di un rito di passaggio.
La Ocampo gioca moltissimo con la sovrapposizione dell’iconografia religiosa con quella erotica, muovendosi tra devozione e immaginario BDSM; il film va oltre la rappresentazione di una crisi della fede, ma punta sopratutto a far emergere le caratteristiche di un mondo oscuro che mina dall’interno tutto il sistema istituzionale ecclesiastico; in questo senso più che un percorso di purificazione, le visioni che si concretizzano nella realtà di Daniel, deformandone la percezione di tempo e spazio, sembrano alludere ad un vero e proprio rito iniziatico, una dimensione occulta dove il confine labile tra bene e male, mostra la sfera spirituale come un’area sincretica e complessa. Nel passaggio da onirico ad erotico, la Ocampo allestisce un piccolo cinema della crudeltà che sembra guardare ad autori come Jesus Franco, ma con uno sguardo maggiormente rivolto al lavoro sul femminile, forza oscura che preme dai confini della tradizione, scardinandone certezze e senso.