Lo avevamo intuito parlando di Attenberg, il precedente lungometraggio di Athina Rachel Tsangari e successivamente di Alps, il film di Yorgos Lanthimos presentato a Venezia quattro anni prima rispetto al nuovo The Lobster. Il cinema della coppia greca, collaboratori storici, sta irrimediabilmente sprofondando in un vicolo cieco, e gli ultimi bagliori che ponevano Attenberg ad un livello di libertà maggiore rispetto al già discutibile Kynodontas e probabilmente più vicino all’incedere performativo di un film come Kinetta, sono irrimediabilmente perduti per lasciare spazio ad uno schema che si mostra come tale e che già nel film più celebrato del regista greco mostrava tutti i punti deboli che diventeranno norma nei successivi.
Chevalier è il film della Tsangari più chiuso, leggibile e quindi vicino al nuovo corso di Lanthimos; prodotti (veri e propri) approntati per la diffusione festivaliera, lontanissimi da quell’aura arcaica, selvaggia e misteriosa degli esordi e ormai votati all’inerzia di una confezione sempre uguale a se stessa
Si ripete quindi lo schema del gioco come insieme di regole che congelano gli aspetti più vitali di un cinema nato come performativo, nello spazio angusto del numero chiuso. Al netto della solita “metafora” sulla società politica greca, interpretazione che è francamente una riduttiva scialuppa di salvataggio, sempre identica a se stessa e sin troppo debole dal punto di vista teorico, ci sembra che la distanza della Tsangari dai corpi e dai suoi attori sia quella giudicante del peggior Haneke, dove un gruppo di attori-cavia è obbligato a seguire un percorso obbligato che non solo limita le loro possibilità, ma soprattutto quelle di un cinema che nato sulla carta come pulsionale, privilegia al contrario gli aspetti più negativamente entomologici dello sguardo.
La Tsangari era certamente vicina ad un’idea di cinema come performance nel suo dis-farsi, basta pensare non solo alla sua filmografia fino ad Attenberg compreso ma anche alla produzione di Before Midnight di Linklater, certamente l’episodio più debole e appunto schematico tra quelli diretti dal cineasta americano, ma ancora fortemente ancorato al senso di libertà della parola e della deambulazione.
Al contrario Chevalier, e ci spiace dirlo, si chiude negli abitacoli di uno Yacht, per spiare morbosamente le ossessioni di un gruppo di ospiti, con la giustificazione esterna di un gioco a far da cornice delimitante e una gara a punteggio che prende forma per stabilire le abilità sportive dei passeggeri e le loro manie più oscure.
La Tsangari lavora per accumulo e quindi spezza la simmetria ludica solamente moltiplicando le occasioni agonistiche, dal test per verificare la maggiore minore presenza di colesterolo nel sangue, al confronto sulle dimensioni del pene, l’invenzione procede di pari passo con la successione bizzarra e improbabile delle trovate, schema che lungi da aprirsi verso un mondo immaginale dalle infinite possibilità, diventa freddissimo esercizio di stile con una paura terribile di sfiorare veramente i corpi e il cuore del “mettersi in gioco”.
Cinema abietto più che dell’abiezione.