Partiamo da Maamun Al-Wadi, il protagonista.
Chi è Maamun?
“Maamun è uno degli oltre 80.000 rifugiati nel campo di Zaatari e uno degli oltre 3,8 milioni di Siriani rifugiati. E’ uno dei 59 milioni al mondo costretti a fuggire dalle proprie case. La maggior parte sono donne e bambini, la maggior parte non ha la possibilità che ha Maamun di aprire il suo negozio ogni giorno”.
La didascalia scorre in sovraimpressione sulle ombre della notte che scendono su Zaatari in Giordania. Maamun è un tecnico informatico, ha un negozio e vende cellulari, sim card e affini. Tutto molto normale se non avvenisse a Zaatari, nuova metropoli del terzo millennio, sterminata distesa di bianchi containers che vantano un triste primato, essere il più grande campo profughi del mondo. Una massa senza nome, i “rifugiati”, abita lì da qualche anno.
Saltando a piè pari vecchie retoriche e vuoti pietismi, Pablo Iraburu, Jorge Fernández Mayoral e Pablo Tosco scelgono di girare una giornata senza nome né santi sul calendario fra la gente di Zaatari. Solo una macchina da presa lungo un tracciato di strade ortogonali, tutte uguali, lo schema di sempre per un nuovo castrum, ma non vi sono legioni romane al suo interno pronte alla guerra. Singolare inversione di tendenza della modernità, a Zaatari si fugge dalla guerra e si finisce sine die in un limbo in cui l’unica variante è il sorgere e il tramontare del sole. Film prodotto da Oxfam Italia e Commissione Europea per la campagna “You save lives”, District Zero mette in scena il punto zero di vite intrappolate in uno spazio troppo reale per essere definito surreale. Eppure non c’è nulla in quel campo che possa dirsi umano, se per umano intendiamo riferirci a quel lungo e faticoso cammino fatto dall’uomo per uscire dalle caverne e costruire la polis.
Oggi siamo costretti a celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato e produrre documentari che si spera scuotano coscienze cloroformizzate da massicce dosi giornaliere di TV dell’orrore. E allora lo stile è il silenzio, il ritorno al passo lento di ore che scorrono senza eventi memorabili.
Solo biciclette che s’incrociano, qualche pick up malandato colmo di cavoli e patate, immancabili frotte di ragazzini che giocano a palla, mentre un solitario cerca di far volare un aquilone e donne velate con taniche d’acqua per la giornata passano come ombre silenziose. Qualche interno, sedute a terra le amiche prendono il thè con la foglietta di menta staccata dalla piantina innaffiata poco prima, un musicista intona un canto col suo strumento a corde, ma deve smettere quasi subito, ha un groppo in gola e non ce la fa. Ombre troppo lunghe del nostro breve corpo, i ricordi, dice il poeta. E’ tutto quel che resta del passato, e le memory card sono strapiene, occorre resettare. “Oggi, ovunque nel mondo, un rifugiato cerca di portare con sé il cellulare perché all’interno sono contenuti i contatti, le memorie e i legami con il mondo da cui è costretto a scappare”.
Vantaggi della modernità, oggi Maamun ha una grande idea: lui e l’amico Karim fanno una scappata in città e comprano una bella photo printer. Tra selfie e foto del nonno rimasto in Siria perché non c’è stato niente da fare, non si è mosso di là, la clientela aumenta e le pareti dei containers si riempiono di foto.
Ricordi di un passato sereno e foto di case sventrate, ora quel passato almeno è carta che si può toccare e baciare. Si fa sera, Maamun ha fatto scrivere la targa “qui si stampano foto” sulla porta del negozietto. L’amico artista si è prodotto in bei caratteri arabi e con cura tutta orientale per il decorativismo li ha abbelliti con tralci floreali. Ora si torna a casa, domani è un altro giorno.
Pictures are memories. you can’t delete them. You can’t forget him, no.
But it burns my heart!
Remember these verses “ My country and my countrymen will alwais be precious and noble, even when they mistreat me”. In the end, you belong homeland, to your country.
Sono le parole scambiate fra le due amiche che prendevano il thè alla menta. Domani andranno da Maamun.