Leningrado, novembre 1971. Esterno. Giorno. Gogol, Tolstoj e Dostoevskij sono in un cantiere navale. È una giornata nebbiosa, fredda. Siamo sul set di un film girato in occasione del varo di una nave. Sergei Dovlatov – scrittore ebreo russo (1941–1990) interpretato dall’attore serbo Milan Marić – spacciandosi per Franz Kafka intervista gli attori dilettanti che impersonano gli scrittori e corregge, armato di ironia, gli errori madornali che questi commettono raccontando in prima persona i padri del romanzo russo. Alla fine, si festeggia. Dovlatov è invitato a unirsi alla comitiva ma declina, si lascia quella farce alle spalle, almeno per il resto di quel giorno.
Come se si muovesse in un sogno, Dovlatov vaga in un presente fatto di strade deserte e appartamenti stretti, affollati di persone. Di giorno lotta senza successo affinché i suoi racconti vengano pubblicati. Di sera si reca in appartamenti fumosi dove scrittori, artisti, musicisti e filosofi s’incontrano e bevono, discutono di letteratura, ascoltano musica, si confidano l’un l’altro. Di notte sogna Leonid Brezhnev, con lui passeggia sullo sfondo di paesaggi invernali dialogando sul da farsi, dando consigli.
“Noi siamo l’ultima generazione in grado di salvare la letteratura russa”, gli dice l’amico Joseph Brodsky (Artur Beschastny), premio Nobel per la letteratura nel 1987, considerato ad oggi uno tra i maggiori autori lirici del novecento russo ed estradato nel 1972, negli Stati Uniti. Sergei Dovlatov concorda, non vuole andare via, vivere da esiliato in un paese a lui estraneo.
Eppure anche in patria è un estraneo, un corpo spurio. Il suo matrimonio è in crisi, la moglie lo ha lasciato dandogli dell’egoista; vive dalla madre in una casa condivisa. Senza convinzione, prova a scrivere per un giornale aziendale dove gli chiedono di esaltare nei suoi articoli ciò che di eroico c’è nel socialismo. Vogliono che racconti qualcosa che non lui non vede, che per lui non esiste. Quanto egli osserva è la miseria civile e intellettuale di una quotidianità che umilia ogni forma di spirito critico, premiando la mediocrità e coloro che si piegano al sistema.
Un giorno, nel 1978, anche Dovlatov emigrerà negli Stati Uniti, dove infine morirà di infarto a soli 48 anni. Oggi è annoverato tra i grandi narratori russi.
Alexey German Jr., già vincitore dell’orso d’argento nel 2015 con Under Electric Clouds, racconta con questo suo nuovo film una storia che non è solo di Sergei Dovlatov, ma di un’intera generazione.