Alain Gomis torna a a Berlino a cinque anni di distanza da Aujourd’hui e proprio rispetto a quel film, si lascia alle spalle gli aspetti più artificiosi preservando la relazione tra immagine e musica, già esplorata nei suoi primi lavori. Félicité conserva quindi l’energia performativa di Aujourd’hui senza ricorrere alle stesse strategie simboliche e privilegiando la forma minima del racconto.
Véro Tshanda Beya Mputu interpreta una giovane cantante attiva nella Repubblica Democratica del Congo, forte e autonoma si guadagna da vivere con la musica attraverso la quale cerca di ottenere un’identità sociale precisa.
Gomis ci introduce da subito nell’ambito di uno dei suoi concerti, piccole realtà dove si concentra uno spaccato della società congolese e che consentono al regista franco-senegalese di raccontarci in forma efficace e diretta alcune dinamiche sociali.
La musica, affidata in buona parte al collettivo Kasai Allstars, combo congolese sotto contratto con la belga Crammed discs, serve a Gomis come propellente narrativo in quella misura dilatata che dissolve la struttura del racconto nella ripetizione del ritmo. La modalità non è molto diversa dal primo cinema di Abdellatif Kechiche, dove la libertà performativa si sostituisce agli snodi narrativi, consentendoci di costruire il racconto mediante coordinate ritmiche, anche interne all’immagine stessa.
Felicité é sicuramente un interessante lavoro documentale sui suoni e sulla musica congolese e allo stesso tempo riesce ad approfondire la storia di alcuni personaggi attraverso una serie di stazioni narrative che hanno il compito di raccontare il paese. Il difficile accesso al sistema sanitario, il ruolo delle donne, il divario economico tra due strati della popolazione, la complessa situazione di una cittá come Kinshasa di cui Gomis non mostra il volto piú violento se non in alcuni passaggi marginali, confinandone lo spirito proprio nei numeri musicali, dove le feste all’interno delle baraccopoli lontane dal centro esplodono e la birra scorre a fiumi.
La lotta di Felicité contro la cittá per cercare di offire al figlio un’assistenza sanitaria decente dopo un gravissimo incidente, é il tentativo impossibile di dialogare con il contesto urbano, un fallimento che si riverbera anche negli eventi minimi, la cui ripetizione assolve una doppia funzione, quella di una linea narrativa che si inceppa, mentre si apre un percorso piú squisitamente musicale.
Al centro di questa dimensione causale dove tutto sembra ripetersi come se la percezione fosse quella di un sonnambulo, Gomis introduce due elementi strettamente collegati. Dallo stato onirico di Felicité emerge quello di Tabú, l’uomo che si ubriaca durante le sue esibizioni e che fallisce sempre nel tentativo di ripararle il frigorifero.
Tabú, come Felicité non riesce ad uscire dalla ripetizione delle sue attitudini piú distruttive e allo stesso tempo vitalissime. É l’unico che guarda Felicité nella sua dimensione musicale, traendone un’ispirazione di vita che in qualche modo trasmetterá al figlio invalido della donna.
Gomis individua quindi un interstizio possibile proprio in quella zona grigia dove si viene rifiutati dal contesto sociale. Felicité e Tabú sono due outsider, vivono ai margini e scelgono la possessione per attraversare la realtá chiusa e compressa delle baraccopoli. Entrambi infatti osservano l’umanitá che li circonda diversamente da tutti gli altri, interpretando a modo loro un suono e un ritmo che é quello sotteso dalla vita stessa.
Gomis non giudica, li segue da vicino, ma con uno sguardo che non valuta la sostanza di una scelta. A interessarlo é l’intensitá, i suoni e i colori di una cittá che prendono vita dai corpi dei suoi abitanti.