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La Giostra dei Giganti, il film di Jacopo Rondinelli sul carnevale di Viareggio: l’intervista

«A Carnevale è tutto concesso, siamo tutti azzerati, come se ripartissimo dallo stesso livello, da un punto di vista sociale non c’è più nessuna diversità, tutti si partecipa collettivamente a questo rito liberi da condizionamenti e pregiudizi».

Jacopo Rondinelli ha presentato il suo documentario La Giostra dei Giganti alla Festa del Cinema di Roma e lì prima della seconda proiezione mi ha raccontato perché un regista che è nato e abita a Milano è stato irrimediabilmente affascinato da questo spettacolo unico che dura quasi un intero mese, febbraio, nella città di Viareggio.

«Il progetto è nato cinque anni fa, sono stato invitato al Carnevale da un amico come giurato e ho visto una cosa che non mi sarei mai aspettato, uno spettacolo veramente fuori dal comune. Mentre vedevo questi giganti sfilare davanti ai miei occhi mi chiedevo chi fossero i costruttori di queste strutture pazzesche alte trenta metri tutte meccanizzate».

«Lì ho conosciuto i carristi e capendo che avevo davanti dei personaggi davvero straordinari e fuori dal comune ho sentito subito l’urgenza di voler raccontare la storia delle loro vite. Molti di loro hanno un passato illustre, c’è gente che ha lavorato con Fellini, chi ha collaborato con il Cirque de Soleil e soprattutto mi sono reso conto che non esisteva un documento che li riguardasse, cioè raccontasse il dietro le quinte del Carnevale. Quindi per me è stato proprio automatico decidere di farne un documentario».

«Il Carnevale è di per sé molto cinematografico e lo sono anche i suoi protagonisti. Come dicevamo hanno collaborato con grandi maestri del cinema».

Arnaldo Galli iniziò la sua collaborazione con Federico Fellini nel 1952, suo il testone a cui si riferisce Alberto Sordi ne I Vitelloni quando lascia il veglione nella scena girata al Teatro Goldoni di Firenze ma anche la gigantesca Anita Ekberg nelle cui tette Antonio si troverà imprigionato ne “Le tentazioni del dottor Antonio”, episodio realizzato per il film collettivo Boccaccio 70.

Il nipote, Fabrizio Galli, invece preparò parte della scenografia del film dei Fratelli Taviani, Good morning Babilonia. «Le loro opere in qualche modo sono visivamente evocative e quando li si vede a lavoro ci si rende conto che sono davvero in grado di poter fare qualsiasi cosa e quindi di potersi mettere al servizio di un regista, perché sono capaci di alimentare con la loro arte scenografie e mondi paralleli. Trovarsi nel bel mezzo delle sfilate ricoperti di coriandoli nella “bolgia” con questi giganti ti lascia pensare davvero di stare sul set di un film. Non a caso, Virzì qualche anno fa nella Pazza gioia ambientò alcune scene al Carnevale di Viareggio».

Le riprese sono iniziate nel 2014 ma sono continuate anche negli anni successivi, se non è mai mutato l’interesse del regista per questa incredibile festa, le idee si sono accumulate nel tempo, trasformandosi.

«La mia visione è cambiata perché è quello che succede quando cominci a fare un documentario. È una forma cinematografica che in qualche modo ti costringe a metterti in gioco e a stravolgere i piani. Ovviamente si parte da un’idea ma non essendo fiction quando ti trovi di fronte a delle situazioni devi muoverti velocemente riuscendo a carpire le cose interessanti e a dare un senso narrativo a quello che giri. Mi interessava fare un film che non narrasse la cronistoria del Canevale o raccontasse semplicemente la gioia carnevalesca mostrando le costruzioni e le sfilate ma fosse un film con una parte narrativa. Infatti il motivo per cui le riprese si sono protratte per così tanto tempo è proprio perché io attraverso gli anni ho voluto raccontare determinate situazioni come la crisi del Carnevale e gli uomini che ne erano e ne sono parte».

La Giostra dei Giganti è un documento ma anche un racconto intimo, «alcune delle persone che ho incontrato e intervistato sono decedute mentre lavoravo alla pellicola e infatti il documentario è proprio dedicato a uno di questi carristi che ci ha lasciato nel 2016».

«Sì, le cose sono cambiate, però credo che la bravura del regista stia proprio nel riuscire a far sembrare allo spettatore tutto molto naturale come se si fosse trovato lì per caso e automaticamente il film si fosse materializzato sotto i suoi occhi. In realtà ci sono ore e ore di girato, più di 100 ed è stata fatta una selezione pazzesca di materiale».

Alla fine di questo lavoro «il Carnevale è diventato una cosa seria, prima era un momento in cui ci si mascherava, si festeggiava e finiva lì. Avendo lavorato per molto tempo a questo film mi sono documentato, sono andato in fondo a quelle che erano le sue origini, al valore sociale che aveva rappresentato non solo nella città di Viareggio ma nel mondo, essendo unico nel suo genere. La sua peculiarità è di essere un Carnevale satirico, ha sempre affrontato temi importanti, nel passato più ancorati alla politica, ora si muove a tuttotondo sui problemi di attualità, il riscaldamento globale, la pedofilia, l’utilizzo delle armi, l’immigrazione. Si parte dal Carnevale e si arriva a risvolti inimmaginabili che hanno a che fare con la sensibilizzazione sociale, il Carnevale di per sé è un momento collettivo che coinvolge tantissimi elementi, è qualcosa di fortemente carnale, analogico, palpabile e in un era digitale dove tutto è sublimabile secondo me riesce a riportare gli spettatori a contatto con quelle cose importanti su cui dovremmo riflettere come la vita, la morte, lo scherzo, la risata, il pianto, quelle sensazioni primordiali che è giusto non dimenticare e a cui merita restare attaccati».

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