Marine Vacht, che è al suo terzo lungometraggio dopo l’esordio con Cédric Klapisch e l’Isabelle di “Ce que le jour doit à la nuit“, ha una bellezza dolente; sul palco del Cinema Odeon di Firenze, introdotta dal sempre cortese Francesco Ranieri Martinotti direttore di France Odeon, ha accolto il premio “L’essenza del talento” istituito dal Festival in collaborazione con Ferragamo, con una sconnessione dalla realtà ufficiale commuovente ed aliena; mentre rispondeva ad una domanda sulla sua esperienza insieme a Charlotte Rampling nel nuovo film di François Ozon, ha mostrato un’improvvisa emozione, quasi un ritrarsi del suo aspetto in una dimensione meditativa che ha spezzato in un certo senso la parola.
Marine, che sembra non avere profilo facebook e non gradire nessuna presenza social, che ama Pessoa e Boris Vian, attraversa il film di Ozon con la stessa assenza che a un certo punto la separa dal corpo; il suo è uno sguardo che sembra già oltre la superficie architettata dal regista francese, tanto che su questa inafferrabilità è Ozon stesso che introduce una riflessione sin dall’inzio del suo film, mostrandoci l’ombra di un braccio, quello del fratello, che si estende sul suo corpo nudo esposto al sole. Quella di Isabelle è un’immagine che si identifica con la superficie dello schermo, e sulla quale Jeune & Jolie costruisce un impenetrabile immaginario scultoreo, l’ipostasi dell’adolescenza come parte di un universo intangibile. Eppure mentre Ozon lavora togliendo respiro all’immagine e lavorando su un’idea di bellezza che non si muove anche quando piange, Marine Vacht costruisce il suo film con questa perdita progressiva della centralità dell’immagine; sono gli occhi, quasi sempre altrove, rivolti verso l’alto anche quando scopa, persi in una direzione obliqua quando attraversa lo spazio oppure si concentra sull’essenza del piacere, mentre Ozon osserva l’orgasmo da una distanza pittorica sin troppo perfetta. Se al regista Francese, in uno dei suoi film meno vivi di sempre, va riconosciuto comunque il gesto cinico del rovesciamento parodico rispetto ad alcuni titoli a sfondo sociologico, Marine esce da un romanzo obbligato di formazione, con l’indolenza incendiaria della sua età, irriducibile a qualsiasi prospetto filosofico e forse anche al realismo sentimental pop-olare di Françoise Hardy
Ozon manifesta un odio programmatico nei confronti del contesto famigliare, e prendendosi beffe persino di un’immagine Mocciana come quella dei lucchetti che infestano i ponti, innesta nel gioco di ruolo della famiglia nucleare un continuo rovesciamento del lecito nell’illecito, della perversione nella normalità, della disgregazione nell’integrazione. La famiglia è un groviglio di morte, meglio superarla con una conoscenza carnale che possa consentirci di guardare la morte in faccia, attraverso la forzatura estrema del desiderio. Attento al sistema delle relazioni, Ozon si perde però nella sua stessa fredda superficie e ne restituisce allo stesso tempo un’immagine aderente e respingente, fredda e ipocritamente (ir)realistica.
Martine a un certo punto, dentro una camera riempita da un ricordo fluttuante tra morte e vita, guarderà oltre uno specchio, salvandosi dalla programmazione calcolata del suo regista e disinnescandola con il suo sguardo capace di svuotarci l’anima.