Strattonato indietro e ricacciato avanti nel tempo franto di una detonazione e in quello dilaniato di un montaggio esploso: è la prima percezione che Alma Har’el, regista di videoclip qui esordiente nel lungometraggio, dà di Otis, ed è pure il sunto di una parabola esistenziale che ha al centro Shia LaBeouf, tante volte ritrovatosi davanti a sé e al pubblico solo per saltare di nuovo platealmente in aria.
LaBeouf, alla sua prima sceneggiatura, confeziona infatti uno script autobiografico che è a tutti gli effetti un biopic, ma un biopic assolutamente singolare, smaliziato, mai autocompiaciuto, in cui Otis è Shia nello svolgimento di esatte corrispondenze tra simulato e reale che però non interrompe mai, se non alla fine, quand’è ermeneuticamente necessario, l’autonomia della finzione.
Frutto delle sedute di psicoterapia affrontate durante il periodo di rehab, questo Honey Boy nasce dalla stesura di un diario terapeutico per immagini del quale conserva tutto il potere catartico e traspone il valore indicativo che deve aver avuto per il suo autore.
La frenesia compositiva iniziale strutturata attraverso l’accumulo ossessivo di inquadrature brevi, dolorose, abbaglianti, dà la misura precisa di quel disturbo da stress post-traumatico che conduce l’Otis/Shia di oggi (Lucas Hedges) dal set cinematografico allo scontro con la polizia, dall’Otis/Shia di ieri (Noah Jupe, Le Mans ‘66) al percorso di riabilitazione in clinica, dove la rielaborazione di un’infanzia sofferta si fa imperativo categorico che costringe a sovrapporre i piani temporali in un presente psichico e filmico risolvibile unicamente entro una distensione del ritmo, recitando un mantra analgesico di ripetizioni quotidiane.
Nella messa in scena del rapporto tormentato tra il quasi adolescente attore bambino e un padre/manager autoritario, violento, odiato e amatissimo, la regia allora si allenta per lasciare il campo a una routine fatta di alcol e minacce, insulti e sigarette.
Ed è proprio LaBeouf che interpreta, oltre a scriverlo, il ruolo di James/LaBeouf senior, garantendo così al film una prospettiva d’osservazione che stabilisca una distanza funzionale tra vissuto e rappresentato, riservando inoltre a se stesso la possibilità di restituire di quel padre un profilo sfaccettato attraverso un ritratto che non contempli indulgenze, ma neppure ometta di mostrare i sinceri intrecci di mani nascosti al di sotto delle prepotenze.
Honey Boy si colloca perciò a metà tra il j’accuse travagliato di un’anima innocente compromessa dai vizi di un genitore ingombrante ma mai davvero vicino, e il luogo contemplativo da cui poter guardare alle cose, e guardarsi, con maturata consapevolezza, tanto umana quanto artistica.
Alma Har’el codifica così uno scenario nitido, concreto, al contempo capace di dilatarsi fino al lirismo di una luce crepuscolare e avvolgente che abbraccia, finalmente, la solitudine di Otis e apre la strada alla sentenza di Shia:
“Farò un film su di te”
“Fammi fare bella figura, Honey Boy”