Il mondo in un mercatone: da un racconto di Clemens Meyer, un ode ai muletti e alle persone che li guidano.
È notte fonda, tutti dormono. Anche un mercato all’ingrosso tipo la Metro. Quand’ecco che il colosso si risveglia pian piano, accompagnato dalle prime note del bel Danubio blu. Nelle corsie iniziano a sfrecciare i muletti, s’incrociano, sfidano l’oscurità a passo di valzer. C’è vita. C’è un mondo intero.
Al secondo lungometraggio dopo “Herbert” (2015), Thomas Stuber rinnova la collaborazione con l’autore Clemens Meyer e fa pieno centro. Il soggetto di “Herbert”, anch’esso scritto a quattro mani, ruotava attorno alla massiccia figura di un ex pugile della DDR al tramonto (Peter Kurth, qua nel ruolo cruciale di Bruno). In den Gängen è tratto dall’omonimo testo di Meyer incluso nella raccolta “Die Nacht, die Lichter” (Fischer, 2008). Per Stuber e Meyer si tratta del primo colpaccio sul grande schermo dopo un periodo di rodaggio. Se “Als wir träumten” (2015) di Andreas Dresen rappresenta il tentativo fallito di portare al cinema la potenza dell’esordio letterario di Meyer, complice una sceneggiatura inadeguata del mostro sacro Wolfgang Kohlhaase, a “Herbert” manca un elemento fondamentale di In den Gängen: un umorismo gentile che smussa il testosterone imperante e rende il film quello che è: una piccola storia sul posto di lavoro, poetica ed empatica come l’avrebbe immaginata Olmi negli anni Sessanta.
La trama è elementare: Christian (Rogowski) inizia il periodo di prova nel capannone e viene affiancato a Bruno, che col suo carrello elevatore presidia l’area bevande. Non ci vorrà molto prima che il novellino adocchi Marion (Hüller) del reparto dolciumi, e la pausa caffè nel cucinotto dotato di poster tropicale sarà galeotta. Anche perché Christian, quando è vicino a Marion, sente il rumore del mare. No, non è un Harmony e no, il film non si dipana come ci si aspetterebbe. Prende direzioni inaspettate ma non smarrisce mai l’impianto iniziale, quel senso di mondo a parte solidale ed esaustivo, scandito dallo svolazzare dei muletti che quasi fanno invidia alle navicelle di Kubrick.
Benvenuti nella notte, colleghi — intona il responsabile del personale dalla sua cabina, dove tutto vede (tramite schermini in bianco e nero) e tutto orchestra mettendo su musica classica che più classica non si può, ad esempio la suite BWV 1068 di Bach. Il film procede quasi interamente tra le corsie del mercatone, in un orario che oscilla tra il pomeriggio e la notte fonda. Fuori cè la campagna gelata nei pressi di Lipsia, un parcheggio semivuoto, l’autostrada in lontananza. Si ha davvero l’impressione che il mondo esterno non conti, o non esista.
Stuber sfrutta al massimo gli spazi ripetitivi e labirintici del Großmarkt (le riprese si sono svolte soprattutto in una filiale della catena Hamberger) e tira fuori il meglio dagli attori. Rogowski è finalmente in parte coi suoi modi da Picchiatello, Sandra Hüller tratteggia una figura misteriosa che fa quasi dimenticare “Toni Erdmann”, Peter Kurth è paterno, combattuto, duro fuori e tenero dentro. Sembra uscito da un film della DEFA.
In den Gängen seduce con la quotidianità dei gesti — infilarsi le penne nel taschino, coprirsi i tatuaggi con le maniche, lanciarsi il pesce nella ghiacciaia — ma non racconta certo un idillio. La famiglia del mercatone è composta da persone sole, cagionevoli, affamate (tanto da banchettare con le merci appena scadute nei cassonetti). Eppure i guizzi non mancano mai, e una festicciola natalizia sul retro può diventare d’improvviso una spiaggia di Ibiza con qualche sdraio da giardino e una lampada al posto del sole.
Tra le chicche del film, i brani della band Timber Timbre e frammenti splatter dal cortometraggio cult di Stefan Prehn e Jörg Wagner “Staplerfahrer Klaus — Der erste Arbeitstag” (200), parodia dei filmini di formazione aziendale, qui libro di testo nella scena in cui Christian e altri giovani colleghi fanno un corso per imparare a guidare il muletto. Mai corsie di mercatone furono così avvincenti.