Era dai tempi del cortometraggio Nachts schlafen die Ratten (1988), tratto da Wolfgang Borchert e realizzato come “esercitazione” durante gli studi di regia alla scuola del cinema di Potsdam, che Andreas Dresen non affrontava direttamente il tema della Seconda guerra mondiale. Come Herzog, che solo nel 2001, con Invincible, ha compiuto un personale tuffo negli abissi della storia nazista, anche Dresen sembra approdare a questo capitolo di rito in età quasi pensionistica.
Lo fa sulla scorta di una sceneggiatura scritta insieme a Laila Stieler, la decima dai tempi del corto anti-leva obbligatoria Was jeder muss… (1988), e mantenendo intatta la propria poetica microstorica, un patchwork di sguardi Ossi e travagliate storie d’amore. Pressoché sconosciuto al di fuori della Germania, il piccolo gruppo resistente noto come Rote Kapelle è stato già al centro di almeno due documentari, quello di Stefan Roloff del 2005 e il più recente lavoro di Carl-Ludwig Rettinger (2021). Nulla a che spartire con attacchi bombaroli e mostrine appiccicate addosso a Tom Cruise: i giovanissimi esponenti dell’“orchestra rossa” (nel senso leninista del termine) distribuivano volantini con rime antibelliche riprese da Tucholsky, rischiavano la pelle incollando manifesti nella notte berlinese e provavano a contattare Mosca in cerca di aiuto, galvanizzati all’idea di spifferare segreti militari.
Armati di una radiovaligetta, riuscirono a inviare via codice Morse un unico, innocuo messaggio di saluto. Finirono appesi o ghigliottinati. Dresen e Stieler lasciano grossomodo sullo sfondo questi tentativi di sabotaggio non dissimili da quelli dei coniugi Hampel narrati da Fallada, concentrandosi sul rapporto tra Hans (Johannes Hegemann) e Hilde (Liv Lisa Fries) Coppi, in particolare sull’odissea carceraria di lei: arrestata al settimo mese di gravidanza, malgrado le angherie e la malnutrizione riuscì a tenere con sé il figlio Hans Jr. fino al momento dell’esecuzione.
Girato in sequenza, montato con una brillante scomposizione cronologica che regge persino a numerose ellissi, il film fa leva sulla figura mite e stolida di Hilde, una mamma nel braccio della morte, e sui contatti sorprendentemente umani che instaura tra le mura della prigione.
“In Liebe, Eure Hilde” sono le parole con cui si conclude l’ultima lettera della protagonista alla madre e al figlioletto, dettata a un pastore. E il tono del film è proprio epistolare, spesso pensoso o scanzonato, lontano anni luce da intenti agiografici o facili manicheismi. Prima di arrivare al pathos struggente degli ultimi minuti, la parte del leone la fanno i laghi di Berlino, guizzi di gelosia, le strade di campagna percorse in sidecar. Ogni tanto, dei dettagli anacronistici saltano all’occhio.
Questo perché il film rinuncia a una full immersion nel ’42-’43, lasciando elementi moderni sui marciapiedi (una colonnina per il parcheggio) o in campo lungo. Una disinvoltura, questa, che avrebbe potuto tradursi in un gesto stilistico, e politico, molto più coraggioso, saltando a piè pari l’utilizzo delle solite divise da Sturmtruppen, qualche automobile d’epoca e analoghi ammennicoli.
Anticato a metà, quindi moderno solo per l’altra metà, il film soffre dello stesso appannamento riscontrabile nell’opera di Dresen almeno dai tempi di Als wir träumten (2015), sulla carta un’epopea di Lipsia con una potente fonte letteraria (Clemens Meyer) rielaborata dal leggendario sceneggiatore Wolfgang Kohlhaase, nei fatti un film vecchio che parla di giovani.
Purtroppo, anche In Liebe, Eure Hilde soffre di questa miopia, risultando lungo e polveroso, tanto da annacquare l’indubbia efficacia dei suoi momenti migliori.
Resta una testimonianza sincera, un dito puntato su assurdità inumane che ci accompagnano ancora.
Il finale, indimenticabile, raggiunge l’intensità del Decalogo 5 di Kieślowski.
In Liebe, Eure Hilde di Andreas Dresen (Germania 2024, 124 min)
Interpreti: Liv Lisa Fries, Johannes Hegemann, Lisa Wagner, Alexander Scheer