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Joker di Todd Phillips – Venezia 76, Concorso: recensione

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[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#ebb734″ class=”” size=””]Sinossi: Costantemente solo in mezzo alla folla, Arthur Fleck cerca una connessione. Eppure, mentre calpesta le strade di Gotham City oppure le rotaie di transito tempestate dai graffiti di una città ostile, Arthur indossa due maschere. La prima, dipinta per il suo lavoro diurno come pagliaccio. L’altra che non può rimuovere; è l’aspetto che lo proietta in un tentativo inutile di esser parte del mondo e non l’uomo incompreso continuamente battuto dalla vita. Orfano di padre, ha una madre fragile, probabilmente il suo miglior amico e che lo chiama Happy, soprannome che ha incoraggiato il sorriso dietro a un cuore che soffre. Vittima di bullismo da parte degli adolescenti nelle strade, provocato sulla metropolitana, preso in giro dai suoi colleghi clown, questo outsider diventerà ancora più sconnesso rispetto alla realtà che lo circonda.[/perfectpullquote]

Joker interpreta le origini del personaggio omonimo secondo la meccanica di una Scala Shepard ribaltata: pensando a una progressione eternamente discendente il film di Todd Phillips presenta il personaggio all’inizio dell’aggravarsi della sua psicosi e segue amplificando la portata della stessa fino al suo baratro (che rappresenta il culmine, il sigillo iconologico). Le modalità con cui questo indirizzo è raggiunto nella scrittura, nell’interpretazione di Joaquin Phoenix e nella regia mediante l’accostamento di una spinta ascensionale dopo all’altra, in un magnetismo dilatato.

A livello strutturale l’incastro del progetto si identifica in queste relazioni: la scrittura del personaggio propone una nuova lettura, l’attore incarna questa nuova lettura, il film amplifica il linguaggio interpretativo dell’attore e il lavoro in fase di sceneggiatura mediante il sunto per immagini. Nel primo caso si gioca con la consapevolezza di non poter ripetere ma di dover riscrivere, e di dover riscrivere riconfigurando il senso, magari mediandolo da altro o contaminando: la parabola drammatica di Joker è costruita per questo come il ribaltamento parallelo di quella di Batman, perché la nevrosi nasce a causa di un abbandono genitoriale perpetrato sia nel microcosmo privato che in quello pubblico.

Il percorso narrativo dedicato a questo abbandono progredisce quindi in intensità perché prima versa nel polo psicologico e poi in quello sociologico (metropolitano in questo caso).

Phoenix comprende l’ingigantimento di questa parabola e la concreta organizzando l’economia dei tratti secondo una scala proporzionale particolare: la disperazione e la tristezza della sua interpretazione crescono sul suo volto e nel suo corpo mentre lo sviluppo si fa sempre più drammatico ma questa crescita non è mai un calcare sugli stessi punti espressivi, è un’evoluzione che si libra nei cambiamenti del linguaggio del corpo, è un inventare una danza.

L’attore prende un personaggio compresso dalle svolte della scrittura e lo ingigantisce di minuto in minuto, riguadagnando un corpo, donandogli un corpo che prima il personaggio non aveva. In questo modo si allinea alla progressione della scrittura e si impone nel film. La regia riassume per soluzioni visive questo sviluppo discendente: lavora sulla percezione del mondo del personaggio ma è capace di scivolare da una soggetiva virtuale a un’obiettività consona all’analisi sociale, gioca filologicamente con Scorsese e rimane per quasi tutta la durata del film artigianato non interessato alla perentoria sottolineatura dell’iconologia ma alla costruzione dell’iconologia.

Il film somma quindi le tre controparti e completa così, anche se con una sbavatura incoerente proprio sul finale, il suo progetto.

 

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