Sofia Djama è una cineasta algerina trentottenne di raro talento. Ha cominciato professionalmente, dopo la laurea in letteratura, come autrice di short stories e la qualità della scrittura – mimetica, guizzante – è l’elemento che, non a caso, distingue e nobilita il suo film, tra i più applauditi della kermesse. Al festival di Venezia, in competizione a Orizzonti, ha presentato, infatti, in questi giorni il lungometraggio Les Bienheureux (“I beati”), opera che illumina una sezione spesso ripiegata sulla retorica post-coloniale e che si mostra al pubblico come un esempio invece fulgido di maturità nella costruzione del congegno drammatico e, nondimeno, di pregnanza della riflessione sociale. Siamo nel 2008, ad Algeri. Ricorre il ventesimo anno dell’anniversario di matrimonio di una coppia dalle idee progressiste, che coincide, all’incirca, con quello dell’inizio della guerra civile algerina: lui, Samir, è un ginecologo militante che sogna di aprire una clinica ‘democratica’ e pratica aborti illegali per la causa libertaria; lei, Amal, è una carismatica docente universitaria, avvilita dalla deriva retriva di un paese, il suo, che vede bigotto, immobile e privo di prospettive. Per questo – e la memoria corre al padre del bellissimo Bacalaureat di Cristian Mingiu – vuole che il figlio Fahim, diciottenne, dopo la maturità vada a studiare all’estero. Il suo desiderio configge, però, con quello del marito che crede che l’eventuale fuga del ragazzo sarebbe un tradimento all’ideale, al sogno di celebrare, un giorno, la liberazione dell’Algeria dai suoi demoni politici.
Les bienheureux è un film intelligente, di scuola francese, sceneggiato e recitato benissimo e la sua grazia tutta speciale risiede nell’indagine, attraverso i dialoghi riuscitissimi, sulle conseguenze umane della spaccatura sociale: in scena due generazioni, quella dei padri che hanno lottato per una società laica e libera e quella dei figli, confusi dalla crisi d’identità di un paese schiacciato tra due culture, quella ‘europeizzata’ e quella ‘arabizzata’. Così Fahim, figlio unico della coppia dei protagonisti, è un ragazzo sospeso tra due poli: da una parte, l’amica Feriel, una giovane donna spiritosa, volitiva, emancipata e ‘femminista’ che ha perso la madre morta suicida e, dall’altra, l’amico Reda, un ragazzo posato che cerca risposte nel fanatismo religioso come forma di resistenza a un modello culturale – il modello imposto dagli Altri – che sconta la sudditanza all’imperativo ‘americano’ dell’accumulo e della realizzazione di obiettivi materiali piuttosto che spirituali. Di fronte alle illusioni perdute degli adulti, c’è, salvifica, la febbrile inquietudine dei giovani, il loro smarrimento davanti a coordinate divenute insignificanti che prelude, però, a una rifondazione e a una nuova ricerca di senso, condotta ognuno a proprio modo, chi nell’esultanza vitalistica, che nell’aspirazione mistica.
Film di contrapposizione e di dialettica, Les bienheureux instilla in chi guarda il desiderio di saperne di più, di conoscere meglio un mondo poco rappresentato e una pagina di Storia – la guerra civile in Algeria ufficialmente terminata solo pochi anni fa – misconosciuta e negletta. Nel cast, di eccezionale bravura e sensibilità, spiccano le donne: la grande, Nadia Kaci, nella parte di Amal, un’intellettuale delusa ma indomita, e la piccola, Lyna Khoudri, nel ruolo di Feriel, che somiglia, per aspetto, impertinenza e brio, alla Hafsia Herzi che Kechiche – quest’anno, anche lui, in concorso nella sezione principale al festival – ha voluto protagonista, dieci anni fa, del suo indimenticabile Cous Cous.