Tutti i movimenti che facciamo, dall’atto della scrittura fino ad una passeggiata, attivano un sistema intricatissimo di connessioni tra il cervello e i nostri muscoli. È una mappatura sensoriale che guida la comunicazione, fornendo informazioni sull’ambiente esterno e lavorando in combinazione con quello motorio per pianificare movimenti e controllare le azioni compiute dai muscoli. I nuovi strumenti scientifici consentono di esplorare la realtà molecolare e cellulare attraverso l’immagine, così da comprendere le complesse interazioni tra le regioni del cervello e il sistema di movimenti connessi.
Una delle combinazioni più suggestive tra immagine neuroscientifica e arte risiede sicuramente nell’applicazione pittorica sperimentata da Greg Dunn, neuroscienziato proveniente dall’università della Pennsylvania. I suoi dipinti riproducono immagini cellulari, gli impulsi nervosi da un neurone all’altro negli stimoli delle giunzioni sinaptiche, cortecce cerebrali e premotorie. Dunn parte quasi sempre dall’immagine microscopica o da particolari scansioni per ricrearle attraverso la tecnica della pittura tradizionale giapponese ad acqua e inchiostro del periodo edo, a cui applica alcune variazioni, tra cui l’introduzione del colore e il processo di stampa litografica, ottenuto dall’incisione su una lastra delle immagini scientifiche.
Nel ricreare gli elementi del movimento che l’occhio non vede, Dunn attiva un processo euristico come ipotesi di lavoro, evidenziando aspetti altrimenti invisibili nella fotografia cellulare.
È un procedimento tecnicamente diverso da quello che Shane Hope adotta, ma molto simile nei risultati. Hope si inventa intricati collage a partire dai modelli molecolari e dalla struttura del DNA, per arrivare ad una serie di manufatti realizzati con la stampa 3D. Dati che vengono condotti ad un livello successivo di visualizzazione, sulla quale Hope aggiunge l’azione pittorica diretta realizzata con l’utilizzo di leganti su pigmento. Un’azione sulla superficie del manufatto tridimensionale che ha definito più volte come “cicatrizzante”, comportamento fondamentale della vernice per l’artista statunitense.
Masahiro Tsutani, sound designer e artista visuale, torna in concorso al Lucca Film Festival nella sezione corti curata da Rachele Pollastrini, con il secondo film della serie “Movements Arising from Different Relationships / Between Regularity and Irregularity” e si spinge oltre rispetto alle intenzioni del progetto stesso, focalizzato sulla fluttuazione del tempo nel suono, attraverso la mutazione della qualità tonale, la forma, il movimento delle particelle.
Viene in mente, in prima istanza, il lavoro di Tanya Harris sviluppato intorno alla struttura architettonica delle chiese costruite su territorio londinese da Nicholas Hawksmoor. Come scrivevamo da questa parte, nelle quattro chiese di Hawksmoor la Harris ha registrato la frequenza di risonanza usando una tecnica già sperimentata da Alvin Lucier, che le ha consentito di riprodurre la registrazione del “silenzio” nello stesso spazio architettonico, ripetendo il processo fino a quando le frequenze di risonanza non fossero udibili. La musica diventa quindi architettura liquida, aprendosi rispetto a quella inscritta nei volumi solidi della materia. Partendo dallo studio della Cimatica, ovvero l’effetto morfogenetico delle onde sonore, la Harris ha scoperto la geometria nascosta nelle frequenze di risonanza, una sorta di manifestazione della vita stessa dove tutto oscilla e vibra e dove l’immagine, riprodotta con varie tecniche tra cui quella della stampa su pietra, arriva in un secondo momento.
È chiarissimo come in tutti questi esempi, la percezione sia solamente un’organizzazione secondaria dell’immagine rispetto alle intenzioni delle avanguardie storiche dove l’emulsione, la sovrimpessione e altri strumenti ottico-chimici cercavano di restituire la molteplicità del punto di vista e l’atto del vedere nel suo farsi, attraverso la supremazia dell’occhio.
Il movimento del suono e quello della materia cellulare sono dimensioni invisibili che Tsutani ricerca attraverso le particelle della materia inerte, come la Harris, oppure il movimento cellulare nella struttura cerebrale di un topo, come nell’arte di Dunn e Hope.
Ciò che distingue il suo lavoro da questi artisti e dal sound designing della Harris è il tentativo di sperimentare su sincronie e asincronie.
Non si tratta ovviamente di una combinazione gerarchica, né di una retorica audiovisiva tradizionale, tesa alla costruzione di una nuova dimensione attraverso l’applicazione di vecchie grammatologie utilizzate per raccontare il rapporto tra suono e immagine. Il rumore bianco di Tsutani, evoluzione del Japanoise di Merzbow e Incapacitants, precede l’immagine e in alcuni casi la segue, per poi liberarsi in un percorso frattalico e dominato dalle leggi del caos.
È una doppia percezione, aurale e visiva, che crea l’immagine del suono o viceversa, attraverso un sistema che non è semplicemente connettivo o al contrario disgiuntivo.
Ciò che sentiamo, nelle frequenze disturbanti ricercate da Tsutani non è necessariamente generato da ciò che vediamo, al di là della connessione ritmica che spesso l’artista giapponese sembra rincorrere. Ed inoltre, ciò che vediamo, è oltre le possibilità percettive umane perchè in linea con la tradizione del documentario scientifico, esamina un movimento invisibile, la cui immagine viene processata attraverso l’impiego successivo di tecniche digitali, vere e proprie cicatrizzazioni, per rubare una definizione di Shane Hope. Il viaggio immaginale, attraverso gli stimoli delle neuroscienze, attiva altri sensi oltre all’occhio e ci cattura in una rappresentazione della mente così vicina e allo stesso tempo lontana dai confini epistemologici.