Quello di Khalid (Khalid Abdalla), trentacinquenne protagonista del film, è un vagabondare senza meta per il Cairo, nella frenesia del traffico caotico, sfiorando lo splendore decadente di palazzi e monumenti, mescolato al popolo chiassoso dei caffè o a quello frettoloso e indifferente delle piazze e delle strade. Regista in cerca di idee, la sua è una deriva fluttuante tra un film che forse non finirà mai sugli ultimi giorni di libertà della città, quelli che hanno preceduto la rivoluzione fallita del 2011, un appartamento in cui traslocare che sembra non riuscire a trovare mai, una madre in ospedale (Zeinab Mostafa) che ben presto morirà in sua assenza e Laila (Laila Samy), un amore in disarmo che sta lasciando l’Egitto.
La perdita sembra essere il denominatore comune delle cose della sua vita e un Paese confuso e senza direzione il suo habitat.
Khalid si aggira dentro spazi che non hanno punti di riferimento precisi, guarda la città dalla grande finestra di casa, poi continua a guardarla sul suo monitor, sono le riprese del film, forse un senso verrà da lì, un giorno.
Esperimento felice di doppia focalizzazione, interna ed esterna, l’occhio velato di tristezza, quella delle cose pensate e non fatte, dei sogni mai avverati, dei giorni svaniti per sempre, è quello del suo autore che dice: “Chi non ha vissuto prima della rivoluzione non sa cos’ è la dolcezza di vivere”.
Abbandonarsi al ricordo è facile, cercare di capire il presente è tutt’altra impresa.
L’identificazione di Tamer El Said, il regista, con il protagonista è forte, Khalid è un alter ego su cui si proietta il malessere suo e della sua generazione al ricordo dell’aria che un tempo bruciava di speranza, dei milioni di manifestanti in piazza che deposero il presidente Hosni Mubarak, di quel lottare caparbi contro oppressione, censura dei media e propaganda di Stato che per trent’anni avevano soffocato il Paese. Essere amici allora, uniti da idealità comuni per una primavera creduta possibile, aveva reso unica quella città.
Le tracce sedimentate nella memoria affiorano nelle rare parole della vita quotidiana, schiacciata nell’alveo di una normalizzazione imposta e subita. Solo nelle interminabili discussioni con i colleghi arrivati da lontano, Bassem (Bassem Fayad) da Beirut, Hassan (Hayder Helo) da Baghdad, Tarek (Basim Hajar), ora residente di Berlino ma proveniente da Baghdad, sembra brillare una fiamma, ma è un fuoco fatuo, ben presto le risposte che allora erano lì, pronte per essere urlate in faccia al potere, si sfilacciano diventando inattuali.
Muoversi a posteriori “negli ultimi giorni della città“, dentro i suoi spazi, riconoscibili eppure diventati estranei, è un passaggio tra il “materiale” del passato e l’“immateriale” del futuro-presente.
Sembra che polvere e sabbia si siano depositate su tutto, nulla è rimasto esperibile se non l’idea di non ritorno, il corpo degradato della città è in via di decomposizione.
L’ambientazione di un film in una grande città, ricorrenza tipica delle avanguardie d’inizio ventesimo secolo, da Karl Grüne a Walter Ruttmann fino a Fritz Lang, intrecciava una volta entusiasmo positivista e influenze futuriste in un poderoso insieme visivo e sonoro, e la città moderna, dalla calma dell’alba all’attività e al divertimento febbrile della sera, era protagonista di una scena affacciata sul futuro.
Quello di Khalid è invece un requiem, o forse piuttosto la ballata triste sul far della sera di una città in agonia, che oscilla perduta fra il ricordo di quello che era e lo spettro di ciò che è diventata.
Tamer El Said collabora con Rasha Salti alla sceneggiatura, e il progetto di filmare un ritratto del Cairo due anni prima della rivoluzione ha vissuto una lunga gestazione fatta di centinaia di ore di ripresa, attori persi e ritrovati, luoghi continuamente cambiati.
Lo sguardo di Khalid è presenza fissa sulla scena con il suo bisogno di capire senza però far nulla per intervenire, quasi che anche il suo presente si trasformi in passato nell’atto stesso del suo manifestarsi. Tutto diventa così un gioco di specchi, mentre le riprese di Khalid si accumulano e collimano con il film di El Said, filmati d’epoca con manifestanti urlanti e sanguinosi pestaggi di polizia in piazza Tahrir si fondono al presente fatto di raduni islamisti, operai che demoliscono un condominio mentre i ricordi sparsi dei suoi abitanti diventano carta straccia, un uomo che picchia la moglie in un cortile è un breve flash sulla condizione femminile in quei luoghi.
Il confine tra storia e vita in diretta si annulla in un vortice che dal punto più ampio della sua spirale attrae verso il centro, là dove tutto si fissa per un attimo e poi viene inghiottito dall’oblio.
Avvitati l’un l’altro sulla stessa strada, vita e film si legittimano a vicenda.
Ma siamo al cinema e tutto può accadere, anche che Khalid smetta di guardare soltanto e apra finalmente quella finestra. Il vento entrerà a sconvolgere le carte mentre fuori, nell’aria, l’immagine di un amico che lo esorta a non arrendersi si materializza. I compagni che da Beirut, Baghdad e Berlino gli hanno inviato i loro video per raccontare le strettoie e il coraggio della propria vita gli daranno forza, la guerra li ha colpiti troppo profondamente distruggendo la dolcezza del vivere e forse quelli passati sono stati “gli ultimi giorni della città”, ma ora c’è un presente e val la pena di esserci, nonostante tutto.