“ Il mondo sta andando in pezzi, bisogna essere proprio suonati per aggrapparsi alle sue rovine …”
Ma aggrapparsi alle rovine è quel che fanno i due giovani, un algerino, Ibn Battûta (Fethi Gares), e una palestinese, Nhala (Diana Sabri), protagonisti di questo viaggio, reale e immaginario, in un Mediterraneo gonfio di memorie e di fantasmi, ripreso da scogliere brulle o da banchine cariche di containers e imbarcazioni, chiuso tra sponde infiammate da guerre e attraversato dalla speranza cieca dei nomadi del terzo millennio.
“ I miei personaggi non sono vittime, reagiscono a ciò che succede. Il mio non è un film sulla difensiva, ma un film sull’offensiva, sulla costante spinta rivoluzionaria ”.
Primavere arabe ormai archiviate tornano attraverso il filtro depurato del tempo, ubbidiscono a scelte stilistiche rigorose e in continua germinazione, plasmate da una maestria registica fervida e inventiva: “ La questione centrale del film era come filmare i fantasmi, come materializzarli davanti allo schermo. Molte cose le ho riprese in forma di riflesso, non in termini di azione, e per questo sono viste attraverso i vetri, gli specchi, senza consistenza … “.
Ici et ailleurs di Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miéville, e The Red Army/PFLP: Declaration of World War di Adachi Masao e Wakamatsu Koji si potrebbero chiamare in causa come genere fondante a cui guarda Teguia, senza dimenticare Racconto crudele della giovinezza e Notte e nebbia in Giappone di Ōshima Nagisa, capostipite di ogni discorso del cinema che parli di rivoluzioni mancate, sognate, sperate, fallite.
Teguia fa un ulteriore passo avanti, filma i fantasmi.
La nebbia lattiginosa da cui, nell’ incipit, Ibn Battûta esce correndo verso il pubblico, dirada per lasciare il posto al buio. Il nero è il filtro dominante, una distanza mai esattamente misurabile fra i corpi è il suo parametro di base. Indeterminatezza, precarietà, senso di non finito devono prevalere.
Zanj Revolution è un film in divenire, il suo nastro potrebbe riavvolgersi in un loop continuo dopo i titoli di coda e Nhala spostarsi dalla Grecia di Tsipras, dove la lasciamo nella piazza che urla la propria miseria, in chissà quale altro angolo della terra, alla ricerca di una rivoluzione perduta, inseguendo quel fantasma che si aggira per l’Europa ma sfugge ogni volta come ombra lieve all’abbraccio.
Nhala, trentenne, è l’emblema dello sradicamento della sua generazione, Ibn Battûta le passa accanto sfiorandola. Fratello, amante, amico, compagno di lotta, non c’è etichetta che li possa unire. S’incontrano e si separano lungo le traiettorie del Mediterraneo, ma lui ha una meta.
Poche monete restituite da una terra devastata nel sud dell’Iraq, le paludi di Bassora, dove il Tigri e l’Eufrate s’incrociano fra canneti e palmizi, sono il suo miraggio.
Monete degli Zanj, antica etnia distrutta di cui nessuno ricorda e, se ricorda, non ne parla. Ne è rimasto solo il metallo, le effigi le ha mangiate il tempo, ma è un piccolo segno che è riuscito a superare i secoli.
Ibn Battûta è un giornalista, fa soprattutto giornalismo d’inchiesta. Filmava una piccola Intifada locale, nel sud algerino in rivolta contro il nord che risucchia tutte le risorse del paese lasciando sacche di miseria nell’interno.
“ Ho incontrato un ragazzo con le tasche piene di pietre, ha pronunciato un nome, Zanj ” racconta.
Parte da qui il suo viaggio dall’Algeria verso l’Iraq, fino alle paludi di Bassora, passando per Beirut.
“A Beirut all’inizio degli anni ’80 si scriveva la storia, un vero e proprio fermento, una Babilonia contemporanea, la nostra Manhattan. Tutto il mondo arabo racchiuso in una sola città. Alla fine siamo rimasti prigionieri dei nostri interrogativi, delle nostre contraddizioni, alla fine nessuno sapeva cos’era Beirut, i Libanesi e gli altri. Gli Arabi vivevano nei ghetti che si erano costruiti, Beirut era un territorio di perplessità… “. Parole di Malek, amico di Battûta, combattente della generazione dei padri oggi in disarmo, come il padre di Nahla, profugo palestinese.
A piedi, con cuore leggero,
mi avvio per la strada aperta,
libero, in piena salute,
il mondo davanti a me.
Il lungo sentiero oscuro mi guida
dove voglio che mi conduca.
I versi di Whitman forse un giorno diventeranno il viatico di nuove rivoluzioni, per ora sono in bocca al gruppo di affaristi americani che, in un continuo intreccio di montaggio, fanno da contrappunto ai due protagonisti che vagano di città in città.
Gli americani stazionano in lussuose hall da cui raggiungono il deserto pietroso, abbacinato dal sole, intorno a Baghdad. Tracciano mappe, fanno sopralluoghi, tessono rapporti finanziari:
“ I love Iraq. Il paese è una lavagna bianca, ci si può scrivere quello che si vuole. Investimenti nel divertimento, autostrada, anche un centro commerciale, un potenziale di 300 milioni di clienti.. Commercio, illusione, manipolazione dei desideri e soddisfazione per procura… il gusto dell’impero è nella bocca della gente, come il gusto del sangue è nella giungla ”.
Walou, niente, è la parola più ripetuta nella parte del film che riprende le zone buie, gli occhi dei ragazzi che guardano avanti ma non vedono niente, il futuro sembra dissolto. Beirut è la prima tappa per Nhala e Ibn Battûta, ed è “ la memoria dei nostri fallimenti ”.
Di tante altre speranze interrotte si parla nel film, ed erano le primavere arabe.
Ma Ibn continua a cercare le facce degli Zanj sulle antiche monete e il grande libro della loro sapienza in polverose biblioteche vuote e negozi di antiquari stracolmi di paccottiglia.
Il suo viaggio della memoria non si ferma, “ avere la misura della sconfitta è l’unica possibilità per sperare ancora ”.
La rivolta degli Zanj, gli “schiavi dalla pelle nera” nella Persia degli Abbasidi che si ribellarono contro il califfo Abd al-Malik ibn Marwan, mettendo a ferro e fuoco l’impero islamico per oltre dieci anni, avvenne 12 secoli fa. Ma un ragazzo ribelle nel sud dell’Algeria lanciava le sue pietre pensando a loro. Perché? Com’è possibile?
El Mokthara era la capitale, dov’è? Ne aleggia il fantasma da qualche parte.
Ibn si aggrappa al presente, cerca il grande libro, ne resta solo un’eco ma è quel che conta, anche le rivolte di Atene, Algeri e Baghdad, i morti di piazza Tahrir, i genocidi senza nome un giorno parleranno a chi vorrà ascoltarli.
Teguia procede per frammenti ed ellissi, affida a chi guarda spazi da riempire, alterna primi piani, scorci di visi immersi nell’ombra, a panoramiche sconfinate fra il mare e le alture rocciose, i grandi fiumi della Mesopotamia lasciano il posto a colline sassose, brulle, dove salire a cercare. Ma cosa?
Voli di stormi nel cielo e anfratti bui di periferie desolate, grattacieli svettanti su antiche città colonizzate dai capitali occidentali e orientali e rive solitarie lungo il Tigri, immenso.
La macchina si ferma a lungo a guardare, la musica la segue, si arresta, poi riprende il suo ritmo concitato. Discontinuità, “ tempo intermedio, spazio di superfici e profondità, come nel film di Godard, Ici et ailleurs ” dice Teguia e parla di “ lotte possibili, necessarie e inevitabili, delle cose che non si possono evitare ”.
Ibn Battûta raggiungerà lo Shatt al-Arab e forse troverà le facce degli Zanj, Nhala è arrivata ad Atene, “ la grande città dal selciato rovente ”.
Idranti e lacrimogeni segnano lunghe parabole su piazza Syntagma, l’aria è rossa, il cielo nero.
Una delle rivoluzioni possibili, necessarie, inevitabili sta esplodendo.