Sorprende un po’ che, nel contesto di un percorso di formazione cinematografica così atipico per Sanal Kumar Sasidharan, il lungometraggio di questo regista del Kerala appaia tutt’altro che amatoriale ed è anzi straordinariamente sapiente nei congegni drammaturgici, nella tensione che non si smaglia pur nella scelta di adottare un tempo reale, libero dalla mistificazione del montaggio, e di rinunciare alla sceneggiatura, affidando a dialoghi improvvisati e mimetici – ma non per questo meno affilati – il racconto di un viaggio al termine della notte profondamente ambiguo nelle sue implicazioni simboliche.
Protagonisti del film due giovani, una ragazza, Durga, e un ragazzo, Kabeer. Sono in fuga e cercano un passaggio nella speranza di raggiungere la stazione più vicina da cui prendere un treno per andare lontano, verso una nuova vita. Incappano in un furgoncino guidato da due modesti trafficanti, malfattori di lega minore, disposti – apparentemente – ad accompagnarli. Per la coppia è l’inizio di un incubo: Durga diviene oggetto delle attenzioni dei due uomini che, con tono inquisitorio e invadente, la punzecchiano con crescente insistenza. Più volte Durga e Kabeer scendono dal veicolo, ma puntualmente si perdono in una notte nera e senza approdi, che inghiotte le loro speranze nella ciclicità ineludibile della disperazione costringendoli a risalire sempre su quello stesso furgoncino, ogni volta allettati dalla subdola promessa di essere portati a destinazione. Ma il treno, e con quello la possibilità di cambiare, s’allontana sempre di più.
Per atmosfera (cupissima) e apprensione (estenuante), ‘Sexy Durga’ ricorda due film recenti: da una parte ‘Nocturnal Animals’ di Tom Ford, anche se il cinismo dei piccoli gangster non sfocia mai in una scoperta brutalità e, anzi, si esprime attraverso l’esercizio di un dubbio sui moventi del loro gesto solidale che diviene pretesto di una tortura psicologica; dall’altra, ‘Victoria’ di Sebastian Schipper (come questo, realizzato in un’unica notte), anche se qui la seduzione dell’avventura manca e, con quella, anche la suggestione di una giovinezza che brama il brivido e preferisce qualunque eccitazione – anche quella del sangue e del crimine – all’appiattimento anodino di una quotidianità senza epica. In più, rispetto a quei due film, c’è, però, la riflessione sul particolarismo sociale che, tra i tanti piani di lettura possibili, è, forse, il più potente: la giustapposizione delle scene rituali che s’alternano al filone principale della fuga notturna e impossibile dei due innamorati, fidanzati o sposi che siano, sembra dischiudere a chi guarda un indizio per la decodifica finale. La liturgia praticata dai fedeli per onorare la dea Durga, personificazione furiosa della forza insieme creatrice e distruttrice della femminilità, suggerisce di leggere la vicenda parallela della sua omonima terrena come un eterno ritorno all’uguale, immobilismo di una cultura che inghiotte nel suo rito anaforico le aspirazioni individuali e, nella ripetizione, respinge al mittente qualsivoglia desiderio d’emancipazione.