In pochi, finora, si sono spinti oltre nella critica al mondo dei social network e alle sue implicazioni nella vita sociale. Il giovane regista coreano Hong Seok-Jae fa parte della generazione dei nativi digitali e dimostra di conoscere alla perfezione la materia sfuggente e ancora oggetto di scarso approfondimento sociologico dei social. Il suo Socialphobia, presentato in anteprima nazionale al Florence Korea Film Fest nella sezione Indipendent Korea, mette alla berlina il popolo di Internet 2.0, contenitore di falsità, meschinità, crudeltà e prevaricazione. Due ragazzi che stanno studiando per diventare poliziotti partecipano ad una spedizione punitiva nei confronti di una flamer che, su Twitter, ha diffamato un disertore dell’esercito morto suicida. Armati di I-phone ultima generazione, videocamere incorporate a computer e tablet, con l’intento di riprendere in diretta web la loro missione, fanno irruzione nell’appartamento della ragazza ma la trovano impiccata. Il video diventa virale sulla rete e finiscono a loro volta oggetto di una campagna denigrante sul social network, accusati di aver istigato il suicidio della ragazza. Decidono così di indagare sul caso, convinti che dietro l’apparente suicidio si nasconda qualcosa di più.
Tutto passa dalla rete, niente è escluso. Il punto di vista di Hong Seok-Jae è netto e non lascia spazio a fraintendimenti: Twitter diventa il simbolo di un mondo nel quale è fin troppo facile manipolare l’opinione degli individui; basta infatti un tweet per rovinare la reputazione delle persone. Nulla diventa definito, tante le ombre che si possono addensare nella vita di ogni individuo, al punto che la manipolazione degli eventi finisce per influire sulla manipolazione delle coscienze e, come in un incastro di scatole cinesi, anche sulle proprie credenze. La verità diventa sfumata così come la consapevolezza dei protagonisti, pedine di un gioco al massacro dove, banale a dirsi, conta più l’apparenza che la sostanza. È una lunga rincorsa questo film, una rincorsa spesso frenetica e annebbiata, verso lo svelamento di un mistero che forse neanche esiste. Perché anche i fatti più evidenti, quelli incontrovertibili, possono essere messi in discussione e strumentalizzati.
Visione manichea quella di Seok-Jae, eccessiva in certi casi. Ma ciò che convince di meno è la scelta del regista di affidarsi a una sceneggiatura che spesso perde il contatto con la storia e con i personaggi. Strano a dirsi in un cinema, quello coreano, nel quale l’impianto narrativo è tendenzialmente solido e granitico. Qui invece qualcosa non funziona e l’incessante velocità con la quale scorrono i tweet sulla bacheca di Twitter (e in certi casi sullo schermo) è la stessa di una storia che lascia molte domande irrisolte, molti buchi neri che non vengono colmati.
Alla fine sembra sia inevitabile rassegnarsi: la bacheca che qualcuno definiva virtuale è diventata reale e condiziona le nostre relazioni sociali. Oggi giorno un fake può far più male di un colpo di pistola e, da carnefice a vittima, il passo è terribilmente breve. C’è solo un conforto: come si fa presto a finire nel tritacarne, si fa altrettanto presto a finire nel dimenticatoio. Non c’è memoria né coscienza sociale nella società ai tempi di un tweet.