martedì, Novembre 5, 2024

Sole di Carlo Sironi – Venezia 76, Orizzonti: la recensione

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f5af00″ class=”” size=””] Sinossi: Ermanno è un ragazzo che passa i suoi giorni fra slot machine e piccoli furti. Lena arriva in Italia per vendere la bambina che porta in grembo e poter iniziare così una nuova vita. Ermanno deve fingere di essere il padre della bambina per permettere a suo zio e alla moglie, che non possono avere figli, di ottenere l’affidamento in maniera veloce, attraverso un’adozione tra parenti. Sole, però, nasce prematura, e deve essere allattata al seno: mentre Lena cerca di negare il legame con sua figlia, Ermanno inizia a prendersi cura di loro come se fosse il vero padre.[/perfectpullquote]

Come Sebastiano Riso, Carlo Sironi avvicina il sistema illegale della maternità surrogata attraverso una ricerca specifica sul campo. Per “Una famiglia” era la consulenza del procuratore Raffaella Capasso a costruire lo sfondo sociale, mentre nel primo lungometraggio del giovane autore romano il supporto arriva dalla presidenza del tribunale dei minori di Roma. Ma non c’è niente della disumanità insistita di “Una famiglia” nel lavoro di Sironi, disinteressato alla dimensione criminale della tratta e ai meccanismi antropologici del traffico mafioso. Prodotto da Giovanni Pompili insieme ad Agnieszka Wasiak, “Sole” è promosso dal programma TorinoFilmLab attraverso un contesto produttivo italo-polacco. Una dimensione apolide tangibile, soprattutto nello stile minimale, più vicino a certo cinema dell’est che alla media produttiva del nostro paese.

Scritto insieme a Giulia Moriggi, collaboratrice assidua del regista romano, “Sole” allarga le prospettive dei due autori sulla linea di una ricerca già sperimentata in un cortometraggio come “Valparaiso“, dove la maternità era già al centro di una riflessione sul conflitto tra desideri e condizioni sociali. Dai Centri di Identificazione ed Espulsione alla suburbia cambia il respiro e lo studio sui personaggi, ma non l’idea di una limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali, che accomuna il sistema detentivo con il cuore della città, osservata rigorosamente come spazio politico sottratto.

La solitudine di Ermanno (Claudio Segaluscio) e Lena (Sandra Drzymalska) proviene da percorsi diversi, ma è incorporata in quel bozzolo comune, i cui confini sono drammaticamente ridefiniti dai progetti di economia territoriale. 
Lei incinta, in fuga dalla Polonia e con un’ipotesi di vita a Berlino, lui sospeso tra slot machines e piccola criminalità. Il passato pesa come un macigno per Ermanno, con il suicidio del padre appena accennato, ma sfruttato dallo zio imprenditore per indirizzare contro il nipote l’immagine dolorosa del fallimento. É l’orizzonte negativo dell’ereditarietà come condanna che plasma la vita quotidiana del ragazzo, sorpreso da Sironi in uno spazio bloccato, senza apparenti vie d’uscita. C’è una relazione stretta tra famiglia e città in “Sole” ed è stabilita da un nesso visivo incorporato nella cornice 4:3.

Se il formato consente di isolare l’evoluzione emotiva dei personaggi attraverso la scomposizione del gesto e la sua quotidiana materialità, quell’isolamento empatico della figura umana rispetto ad uno spazio urbano che non può occupare ampiezza di campo, restituisce da un altro punto di vista l’immagine della comunità cittadina come sistema di classi intrappolato nel disegno di un infinito luogo produttivo.

L’azzeramento della dimensione sociale attraversa la composizione delle inquadrature, dove le case sono spazi spersonalizzati, le officine una prigione, i close-up indirizzano sguardi a vuoto, i personaggi di contorno occupano la periferia dell’immagine, mentre le luci delle slot sembrano restituire il bagliore lontano dell’unica meraviglia disponibile. 

Ecco che la maternità, ultimo dei beni acquistabili, quando potrebbe rompere la causalità tra economia e relazioni, diventa il segno della soppressione forzata di un ethos comune, dove la famiglia non può formarsi senza una città dei diritti.

Sironi inverte priorità e polarità dello sguardo, avvicinandosi all’indotto sommerso della città e tagliando fuori dal campo visivo la classe economica che lo determina. Lena ed Ermanno sono figure drammaticamente surrogali, costretti in quella posizione dalla violenta stratificazione sociale e territoriale in cui vivono. Surrogale è la loro relazione con gli oggetti, le azioni, il girare a vuoto nei luoghi di una città inospitale. La loro posizione viene evidenziata dal contrasto tra la delicata empatia con cui Sironi li osserva durante la mutazione di un sentimento e una violenza che preme dai margini, spesso invisibile se non tra gli interstizi delle dinamiche quotidiane.

Per quanto il film dedichi uno spazio rilevante alla relazione tra Lena e la madre adottiva, riuscendo abilmente e con pochi elementi a cogliere quel sentimento indicibile tra appartenenza e abiezione che attraversa le trasformazioni legate alla gestazione, Fabio, lo zio di Ermanno interpretato da Bruno Buzzi, viene quasi sempre inquadrato di spalle, con il volto mai perfettamente a fuoco, mai totalmente in campo, quasi per negare qualsiasi altra identificazione individuale che non sia quella legata alla descrizione di un sistema che regola tutti i rapporti di forza.

Non c’è sole nella splendida fotografia dell’ottimo Gergely Pohárnok, già con Valeria Golino nelle dolorose anti-elegie urbane di Miele ed Euforia, se non in quel montaggio tattile che coglie Ermanno mentre apre le serrande dell’appartamento, illuminando l’unica immagine del padre che vedremo durante il film; quasi una ferita improvvisa per lo sguardo di Lena e il nostro.

Allo stesso modo, il rumore bianco di  Teoniki Rozynek emerge dal silenzio quasi integrale in cui è immerso il film. Il compositore polacco, che aveva già collaborato per l’ottimo debutto di Jagoda Szelc lavora ancora una volta con rumori e glitch percettivi, trovando l’apice di questo disturbo sonoro che arriva dalla città globale, con l’istante emotivo più forte, quello in cui Ermanno e Lena, nella privazione totale di ogni spazio, ne creano uno inalienabile, riconoscendosi.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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