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The Flood Won’t Come di Marat Sargsyan: recensione

The Flood Won't Come, una decostruzione dell'aura sacrale che circonda l'odore della guerra. Visto alla SIC di Venezia 77, la recensione

Perdenti, antieroi, gente senza speranza di cui osserviamo le gesta senza che questi manifestino mai una vera e sincera partecipazione etica o una chiara sensazione morale, ecco i protagonisti di Marat Sargsyan. C’è una guerra, ma è una guerra qualunque, non ci sono riferimenti temporali o spaziali, il regista di The Flood Won’t Come vuole deliberatamente decostruire l’aurea sacrale delle epiche battaglie.

Non conosciamo l’identità ma neanche le motivazioni dei due schieramenti, non sappiamo perché abbiano deciso di combattere una sanguinosa guerra civile, non vediamo mai del sangue o i corpi dei caduti in battaglia, non assistiamo a nessuna delle imprese che avremmo previsto. Guardiamo questo spazio asserragliato e questa diversa communitas con gli occhi di un vecchio colonnello, appesantito e indolente.

Lui in passato è stato uno stratega, un consulente di guerra, ha provocato e assistito a massacri che sembra non voler replicare nella sua terra. È come se stesse completando un suo personale processo di straniamento, non gli interessa vincere, non gli interessa combattere ma solo evitare inutili manovre troppo pericolose per i giovani militari della sua squadra. Si preoccupa di scambiare i prigionieri e di trovare il cibo necessario per non far morire di fame i soldati. Non riflette su ciò che sia giusto o sbagliato, è rassegnato, annichilito da un sistema che semplicemente non riesce più a sostenere.

Noi spettatori siamo chiusi in questo accampamento con lui, condannato a vagare, esiliato dalla sua stessa vita, lo guardiamo muoversi da un punto all’altro in lunghi piani sequenza, l’azione si concretizza altrove, noi assistiamo solo alle conseguenze. Il colonnello è spiato, sembra diventato un sospettato più che una guida, i suoi uomini invece sono smarriti senza saperlo, agnelli sacrificabili di fronte a qualcosa che non comprendono del tutto. Ignari si muovono su questo scacchiere controllato da altri, gli alleati, i nemici giurati, la stampa. Non lo sappiamo.

Il film si apre con la sequenza in volo di un drone, questo approda in una piccola capanna dove un eremita ci dice qualcosa che non capiamo bene, si riferisce alla Seconda Guerra Mondiale, quando sia gli americani che i giapponesi sapevano che i primi erano destinati alla vittoria e i secondi alla sconfitta ma la consapevolezza non aveva comunque fermato l’ordine di sganciare due bombe nucleari.

Ecco, alla fine The Flood Won’t Come gira attorno a questo, all’incapacità dell’uomo di desistere, alla cieca volontà di devastazione, al fatto che se gli istinti di distruzione dominano, gli impulsi primordiali a cui ci si abbandona diventano i soli mezzi con cui purificarsi da quegli stessi istinti bestiali.

Marat Sargsyan pone al centro della sua narrazione non un impianto dualistico, contrapponendo uno schema di valori positivi e negativi e affidandoli a diversi personaggi chiave ma concentra tutta la riflessione su un solo individuo creando nel pubblico degli orizzonti d’attesa e un meta-significato che portano lo spettatore a confrontarsi con una percezione della realtà molto più complessa, in cui nessuno punisce i cattivi e ristabilisce l’ordine ma a un finale poco rassicurante secondo una scala di valori morali inesistente.

Titolo originale: Tvano Nebus
Origine e anno: Lituania, 2020
Durata: 95 min
Interpreti: Valentinas Masalskis, Remigijus Vilkaitis, Sigitas Rackys, Daumantas Ciunis, Darius Petrovskis
Regia: Marat Sargsyan

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