Dopo alcuni corti e un passato da documentarista, Justine Triet esordisce nel lungometraggio con uno stile che si delinea come diretta e naturale prosecuzione della sua esperienza; La Bataille de Solferino si svolge alla vigilia della vittoria di François Hollande e della coalizione socialista, il 6 maggio del 2012, quando Rue de Solferino viene occupata da centinaia di persone divise tra odio e speranza e Laetitia (Laetitia Dosch) lascia le due figlie piccole con un babysitter per condurre una diretta televisiva in mezzo alla folla per I-Telè, la stazione televisiva per cui lavora. Sotto il suo appartamento, il marito Vincent (Vincent Macaigne) da cui è separata e che con un’ordinanza del giudice chiede ossessivamente di poter vedere le figlie.
Laetitia, a distanza, istruisce le persone che le stanno vicine di non far salire l’ex marito, descritto come impulsivamente violento. Il piano non funziona, Vincent riesce comunque ad entrare, porta alcuni regali alle bambine e si attarda dolcemente con loro, per poi essere subito dopo allontanato brutalmente da un vicino di casa della donna. Mentre la diretta è al suo culmine, Laetitia, disperata per la piega che la situazione sta prendendo, chiede al babysitter di portare le bambine verso Rue de Solferino in mezzo alla folla, sovrapponendo la tensione collettiva a quella personale in un intreccio la cui influenza reciproca sarà indistinguibile; quando arriverà anche Vincent, esasperato per l’ostinazione della ex moglie e per il suo gesto folle, la situazione precipiterà un momento prima che possa trasformarsi in tragedia, consentendo subito dopo un confronto diretto tra i due e una via inedita per comunicare.
La Triet dimostra un’innegabile capacità di confondere tutti gli stimoli dell’immagine che percepiamo come “documentale” in un convulso tour de force che s-bilancia la relazione tra il futuro di un paese con la descrizione di una generazione disillusa che si confronta con il fallimento del proprio progetto famigliare; l’immagine oscilla tra l’utilizzo privato dei mezzi connettivi, con i protagonisti che comunicano solamente attraverso cellulare, e la pervasività della comunicazione globale, quella televisiva, o quella onniscente della rete. Un dissidio che la Triet filma con un grande senso dell’orchestrazione e che non travalica mai sulla libertà di muoversi dei personaggi, osservati quasi sempre al margine, in precario equlibrio e un attimo prima che accada qualcosa di esplosivo. La Bataille de Solferino allora è un film apparentemente lieve, nel suo lavoro quasi estremo sulla forma della commedia che separa e unisce in una serie di combinazioni i personaggi del film, ma fortemente politico nel mettere, semplicemente, in relazione l’influenza tra potere, scelte collettive e vita individuale; sono straordinari in questo senso, i frammenti girati in piazza, registrati subito dopo la vittoria di Hollande, la cui flagranza non è certa, ma che hanno comunque la forza di un’immagine della “verità” nel cogliere i sentimenti, il ballo liberatorio, la rabbia e le speranze di un’intera nazione, attraverso la formidabile fotografia “estrema” di Tom Harari. Da una parte quindi la massa, che nel cinema della Triet sembra una costante, e che qui filma con un’attenzione maniacale alla frammentazione del punto di vista, a tratti quasi ispirandosi all’iconografia sulla battaglia del 1859 tra austriaci ed esercito franco-piemontese , dalle pitture scenografiche di Carlo Bossoli, ai dipinti di Jean-Louis-Ernest Meissonier; ma anche i dettagli, la relazione tra massa e individuo, sentimento collettivo e passione personale. Tra questi volti, il passo senza requie di Laetitia, non solo tra la folla ma anche in quella bellissima sequenza in cui porta il cane dell’avvocato a prendere aria per liberarsi dai suoi fantasmi, e il deambulare disperato di Vincent, sempre in cerca di un punto di riferimento o semplicemente di un segno d’amore.