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Tower. A Bright Day di Jagoda Szelc – Berlinale 68, Forum: la recensione

Un vero e proprio “overlook” sul confine tra paesaggio urbano e natura introduce il debutto della regista polacca Jagoda Szelc, presentato nella sezione Forum della Berlinale e già onorato in patria al recente festival di Gdynia dove ha ottenuto il premio per la migliore opera prima e quello per la migliore sceneggiatura.
La colonna sonora di Teoniki Rozynek, tra drone music e l’amplificazione estrema di certe intuizioni elettronico-inorganiche, riecheggia il lavoro di Wendy Carlos e Rachel Elkind sulla sequenza iniziale di Shining.

Il parallelo non è del tutto peregrino, non solo per l’impatto e il punto di vista simili, dove una macchina con famiglia a bordo viene messa a fuoco dall’alto, nella vastità naturale della bassa Slesia che circonda una strada statale, ma per le caratteristiche infantili e allo stesso tempo ancestrali incarnate dallo sguardo di Kaja (Malgorzata Szczerbowska) mentre guardando in macchina anticipa lo scatenarsi di forze irrazionali entro i confini del nucleo famigliare.

La Szelc offre a queste immagini iniziali un indirizzo interpretativo che in qualche modo ne determina il tono: quello che state per vedere è basato su fatti futuri. Approccio dichiaratamente apocalittico teso a creare un disturbante contrasto tra l’ambiente naturale della campagna polacca e l’ambiguità interpretativa dei segni che questa sarà in grado di scatenare.
Sin dal momento in cui volge al termine il viaggio di Kaja insieme al fratello Andrzej, la moglie Anna e i loro rispettivi figli, la decostruzione musicale di Teoniki Rozynek lascia il posto all’incredibile lavoro di scultura sonora operato da Kacper Habisiak, in una direzione che abbandona del tutto quello che potevamo temere fosse un esempio di cinema concettuale, per favorire al contrario un’esperienza di tipo immersivo e sensoriale.

Il ronzare degli insetti, la natura circostante che comincia ad animarsi tra visuale e sonico, applicano in buona sostanza la prassi field recording ai segni di una narrazione allusiva che non cerca, fortunatamente, di spiegarci qualsiasi cosa con il filtro dell’analisi sociale, senza per questo rinunciare ad una contestualizzazione che possa assumere una dirompente flagranza nella descrizione di un pomeriggio famigliare polacco, in bilico tra le sedimentazioni più dannose della tradizione e la minaccia della disgregazione, aspetti che avvicinano il tentativo della Szelc ad alcuni elementi del cinema empirico di Bence Fliegauf, anche se i rumori reinventati da Habisiak vanno in una direzione opposta rispetto al lavoro di Raptors’ Kollektíva; nel primo caso ciò che è conosciuto non esce completamente dalla propria cornice, ma tende ad occupare una zona tra l’ignoto e il famigliare, mentre nel cinema del regista ungherese la relazione tra fonte sonora e rumore è del tutto acusmatica. Questo consente alla Szelc di costruire una tensione impalpabile tra montaggio visivo e presenza sonora, quasi sempre attraverso improvvise cesure, sospensioni del senso, salti ex abrupto da un piano all’altro.

Kaja ritorna alle sue radici dopo un allontanamento lungo sei anni dal nucleo dei suoi affetti. La Szelc tralascia di raccontarci le cause, ma la minaccia della malattia mentale viene determinata dalle tracce comportamentali della madre (Anna Zubrzycki), l’unica che riesca ad ottenere concreti benefici curativi dal contatto con Kaja, tanto da uscire miracolosamente da quell’obnubilazione della coscienza in cui sembra esser sprofondata, come a dire che è proprio dalla normalità che scaturisce la ribellione della follia.

Il motivo del ricongiungimento è la comunione di Nina (Laila Hennessy) figlia naturale della stessa Kaja e ignara delle sue vere radici;  Mula (Anna Krotoska) che l’ha effettivamente cresciuta, intima alla sorella di comportarsi naturalmente, di starle lontana il più possibile e di non spezzare quell’equilibrio necessario a mantenere un ordine basato sulla menzogna.
Mentre i figli del fratello giocano con Nina immersi nella natura, Kaja sembra dialogare con gli elementi e produrre energie che destabilizzano a poco a poco i componenti della famiglia, esercitando un’attrazione biologica fortissima sulla bambina.

Nell’instaurarsi di uno scontro evidentissimo tra le reminiscenze di una relazione pagana con il circostante e la fondazione cattolica su cui si regge tutto il sogno socio-famigliare di Mula, la Szelc cerca l’essenza stessa del suo cinema nei piccoli scarti del quotidiano e in quelle ossessioni paranoidi che minano il pensiero nucleare basato sul controllo.

La figura del sacerdote come pastore per le giovani generazioni mostra i segni di una malattia interiore e indicibile proprio nel contatto con i più piccoli. Da corpo a questa sconnessione tra identità e gesto sacro svuotato da qualsiasi significato un inquietante Artur Krajewski.

La Szelc contrappone ai segni forzatamente inclusivi dell’educazione cattolica che esclude la ricerca, il richiamo di tutte le forze della natura con una modalità che sarebbe piaciuta ad Anthony Shaffer.
Lontana dal neo-gotico innocuo di The Witch, la giovane regista polacca scolpisce, letteralmente, immagini dell’orrore ad un livello subcosciente, rivelando l’ambigua relazione tra persona e natura attraverso la dimensione possibile dei gesti quotidiani, movimenti apparentemente banali che possono dischiudere l’irrazionalità della violenza o al contrario il superamento di quella logica binaria che sostiene chiesa e stato in un abbraccio mortifero.

I segni sono numerosi e difficilissimi da ridurre in sede analitica, proprio perchè lo sguardo della Szelc sembra trovare un sodalizio miracoloso con la sperimentazione sonora di Kacper Habisiak, il montaggio di Anna Garncarczyk e il naturalismo fotografico di Przemysław Brynkiewicz.

Un suono impercettibile al di là della parete prelude alla distruzione illogica della stessa; un microfono abbandonato nella casa di Dio produce un feedback che contrasta con la realtà appena percepita e anticipa la volontà di Nina di allontanarsi da una celebrazione imposta; gli insetti che invadono i prati evidenziano un livello aurale che non ha niente a che fare con la semplice contemplazione, quanto con lo spalancarsi di un mistero che né la Madonna di Częstochowa né il susseguirsi di ideologie criminogene è riuscito a contenere.

Le immagini finali smorzano e allo stesso tempo deturnano il significato univoco dell’iconografia rivoluzionaria, contenendo molteplici livelli di lettura.

Una resurrezione diabolica sotto il segno del contatto primigenio con le forze della terra o la fuga da qualsiasi forma di utopia?

Quel che è certo è che Jagoda Szelc potrebbe diventare una delle interpreti più acuminate e inafferrabili di quella violentissima deriva est-europea che sta contribuendo a distruggere qualsiasi idea di stato di diritto, con uno stile chiarissimo per mezzi e scelte, eppure ellittico, possibile e soggetto a molteplici interpretazioni.
In un momento di ricettari politici, questo è il cinema della crudeltà che mancava.

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