Le torture di Villa Grimaldi e la violenza bestiale consumata negli altri centri di dentezione cileni durante la dittatura di Augusto Pinochet non sono affatto lontane dalle immagini terribili con cui Lucio A. Rojas introduce il suo nuovo film. La parrilla, lo stupro sistematico, gli incesti forzati de La Venda Sexy sono solo alcuni degli elementi che confluiscono nei primi insostenibili minuti di “Trauma“.
Nel 1978 un agente della DINA costringe Juan, il figlio adolescente, a stuprare una prigioniera politica; l’amplesso che Rojas mette in scena non fa sconti nel connubio tra viscere, orgasmo e morte, tanto da sovrapporre il body horror, l’iconografia del torture porn e il “realismo” estremo della ricostruzione storica, con uno sguardo selvaggio e mai conciliante.
Vicino e allo stesso tempo lontanissimo da “A Serbian Film“, condivide con il film di Srdjan Spasojevic solamente l’ossessiva immersività nella violenza, senza abdicare alla riflessione sul dispositivo, membrana estetizzante che non interessa affatto al regista cileno.
Prima di tutto perché l’aderenza al cinema di genere e al sadismo artaudiano assume la qualità di un vero e proprio disinnesco del lògos, inteso come espressione diretta del potere, per favorire una rappresentazione ritualistica della violenza. Sporco e approssimativo come la “flagranza” di alcune immagini legate al cinema di Jess Franco, “Trauma” muove i suoi passi dallo slasher senza determinarsi entro quella cornice. Al contrario ne riscrive i presupposti, cercando le origini altrove, fino a scavare nella coscienza storica del proprio paese.
Con una struttura simile a quella di “Sendero”, il film precedente di Rojas, la furia cieca del male irrompe nella vita quotidiana di un gruppo di giovani, spalancando l’abisso sul quale è sospeso il Cile contemporaneo. Rispetto al film precedente, oltre ai riferimenti più espliciti alla storia politica, sono i legami di sangue e le differenze di genere a mostrarsi come ferite ancora aperte, in tutta la loro forza distruttiva e patogena. La tortura e il potere sono un “affare” di famiglia, e nelle abitudini sataniche del regime, la relazione con la maternità, invece di rovesciare l’accezione cristiana, sembra estremizzarla nella visione delirante di un patriarcato che sopprime e disintegra il corpo femminile dopo averne abusato ripetutamente il grembo.
Non sono solamente le torture “storiche”, girate con un dolente senso di inesorabilità, ma anche le modalità con cui quel figlio benedetto nel segno dello stupro e della morte, diffonde come un virus la sopravvivenza dello stesso disegno nel Cile contemporaneo.
Il Cottage in cui nel 2011 si trovano le sorelle Andrea (Catalina Martin) e Camila (Macarena Carrere), la loro cugina Magdalena (Dominga Bofill) e Julia, la ragazza di Camila (Ximena del Solar), sembra sovrapposto, a livello spaziale e temporale, con i sotterranei della “Villa” dove Juan (Daniel Antivilo) continua il lavoro del padre insieme al figlio Mario (Felipe Rios). Non è importante che ci sia continuità tra i due luoghi, perché il modo in cui i due uomini controllano le zone rurali circorstanti, evidenzia la pervasività del male non ancora sanato.
Il lungo stupro che viene consumato nel cottage sembra ispirato dal cinema di Meir Zarchi nella persistenza dei piani della visione e nella collocazione dello sguardo all’altezza del corpo abusato, ma diventa presto qualcosa di diverso per la brutale accezione cannibalica che attraversa tutto il film di Rojas. Juan e Mario determinano la loro sopravvivenza attraverso una lunga catena di gesti e pratiche ereditarie, indirizzando l’origine del trauma su una linea che non procede più in modo univoco dal passato verso il presente.
Nell’inferno in cui Rojas si cala ci si può salvare solo se si rinnega il tracciato patrilineare; una madre e una figlia possono farlo, con una fuga estrema dal martirio.
Horror certamente, ma nel senso di testimonianza carnale di quel passaggio dall’essere alla coincidenza negativa del non essere, dove la soppressione dell’altro da se determina un viaggio senza uscita verso la fine di ogni cosa.
“Trauma” è un film ambizioso e allo stesso tempo “inguardabile”, forse anche per quella vicinanza prostetica e artigianale determinata dal sorprendente lavoro di Isabella Marchesse, finto e verissimo nella sua distanza siderale dalle suture dell’immagine digitale.
Come nel complesso lavoro di memorie “vere” e immaginate nei super 8 di Ellen Cantor che procedono da “Pinochet Porn” (2009) i traumi della nostra infanzia, sono l’origine di quelli vissuti nell’età adulta, estensione delle più grandi catastrofi.