Dall’universo femminile del suo primo film Tomasz Wasilewski passa ad un mondo decisamente intermedio con il nuovo Floating Skyscrapers, storia della scoperta problematica e devastante della propria omosessualità da parte di un campione di mascoline certezze.
Si tratta infatti di un atleta, Kuba (Mateusz Banasiuk), fidanzatissimo da due anni con la bionda e sensuale Sylwia (Marta Nieradkiewicz).
A sconvolgere gli equilibri è l’arrivo sulla scena del bel Mikal (Bartosz Gelner) fascino androgino, classe innata, rivelatrice di ottimi natali in famiglia aperta e tollerante. Kuba è di altra provenienza, vive in un modesto appartamentino con la madre, donna sola e dominante, e la fidanzata, è disoccupato e tenta di emergere nel nuoto a livelli internazionali. Ha fisico e buona determinazione, si allena con furore ogni giorno e l’allenatore crede fermamente in lui. Sylwia è cameriera in un fast food, gli è molto legata e tutto sembra procedere nella normalità più tranquilla fino alla festa in cui Kuba e Mikal si conoscono e le affinità elettive esplodono incontenibili.
Qualche affinità circa le differenze sociali che hanno il loro peso nelle storie, anche quando si parla di attrazione omosessuale, c’è pure con il ben più famoso La vie d’Adèle di Kechiche, ma poi lo sviluppo prende strade molto diverse. In Floating Skyscrapers l’esito finale tocca i margini della tragedia, i dogmi di una morale repressiva sono molto più difficili da sciogliere in Paesi dove agli omosessuali non si nega il visto d’ingresso ma si raccomanda di “lasciare in pace i bambini” (recentissima dichiarazione di Putin).
Dunque l’utopia dell’amore libero resta utopia, i momenti di inebriante cedimento ai sentimenti saranno duramente scontati e la repressione si farà strada in forme varie, a negare ancora una volta quanto la natura, invece, afferma con forza.
Nulla di nuovo, pertanto, nel plot , resta da vedere quanto di innovativo Wasilewski riesca a dire con la forma del suo film. Francamente non molto.
Lunghi silenzi, macerazione estrema nel tentativo di resistere agli impulsi, scene di sesso esplicite ma solo fino ad una soglia accettabile anche per proiezioni domestiche, insomma si avverte che qualcosa manca e qualcosa c’è di troppo. In particolare c’è una ricerca autoriale che impagina la storia con compiacimenti evidenti, si manca di leggerezza nel tratteggio del sogno amoroso e si abbonda di greve lungaggine dove tagli chirurgici avrebbero impedito la noia della ripetitività (l’auto che risale uno a d uno i piani del parcheggio è decisamente insopportabile anche la prima volta, figuriamoci dopo).
Qualche ingenuità nella sceneggiatura, poi, (la madre di Kuba che esclama disperata “è tutta colpa mia” è un esilarante riassunto di un secolo di psicanalisi, e infatti la platea ride) è difficilmente perdonabile in un film che si avverte un tantino pieno di sé e pieno di aspettative. Pur collocandosi quindi nel solco meritevole, e già da qualche tempo percorso con egregi risultati, della rivendicazione di un’autodeterminazione sessuale altrimenti negata, questi “grattacieli galleggianti” non aggiungono nulla con il loro déja vu a quanto già detto e visto, e una buona fotografia unita ad un sonoro accurato non possono bastare a riempire un vuoto di ispirazione e di originalità che si avverte sotto la superficie fin troppo patinata.