Home festivalcinema Ana Arabia di Amos Gitai a Venezia 70: il giardino della convivenza

Ana Arabia di Amos Gitai a Venezia 70: il giardino della convivenza

La splendida Yuval Scharf, giovane attrice Israeliana emergente, nel nuovo film di Amos Gitai è Yael, una giornalista in visita in un angolo completamente dimenticato, al confine tra Bat Yam e Jaffa, città a pochi chilometri a sud di Tel Aviv, con una stratificazione storica complessa che dal 1947, in seguito alle risoluzioni delle Nazioni unite per la divisione della Palestina subisce un cambiamento demografico, morfologico e commerciale traumatico.

Basandosi su un episodio vero che documentava la felice convivenza tra una donna sopravvissuta all’olocausto con il marito Palestinese, Gitai, con un piano sequenza di circa ottanta minuti percorre lentamente lo spazio abitativo della famiglia raccontando così la storia possibile di un’intera comunità.

Yael deve scrivere un report sulla vita di Hanna Klibanov, sopravvisuta ad Auschwitz e convertita all’islam dopo aver sposato un uomo Palestinese e conosciuta come “Ana Arabia” il cui significato è “io, l’Araba”.
Incontrerà il marito della donna ormai defunta, Yussuf (Yussuf Abu Warda) e tutti i membri della famiglia; la figlia Miriam (Sarah Adler), la nuora Sarah (Assi Levy) che racconterà a sua volta della sua esperienza matrimoniale, simile a quella di Ana, ma completamente fallita; uno dei figli ancora vivi, Walid (Shady Srur) e due vicini di casa, Hassan e Norman.

Secondo le note stampa, Gitai avrebbe conservato un take unico di ottanta minuti, dopo una decina di tentativi tra quelli filmati dall’operatore Nir Bar, di cui non era convinto, superando quindi qualsiasi barriera di impostazione teatrale, alla ricerca di una flagranza narrativa ed emozionale, che in un unico movimento fosse in grado di comprendere uno spazio apparentemente circoscritto come quello di un giardino interno ad un nucleo di case, microcosmo dai molteplici percorsi possibili, tanti quante le storie che rimbalzano da un angolo all’altro della corte interna e che mantengono tracce nel lavoro quotidiano delle donne, nei ricordi degli uomini e nella conservazione di un giardino coltivato con amore da Sarah e che era stato tirato su proprio da Ana.

Filmato con la luce delle prime ore del mattino, con il sole già alto, cattura i suoni di una tranquillità quasi ancestrale, storicizzando una possibile convivenza tra Israeliani e Palestinesi, attraverso una serie di racconti minimi e marginali. Nella persistenza emozionale del movimento, c’è tutto il senso del cinema di Gitai, se si pensa alla sequenza di Free Zone, quando Natalie Portman si allontana da Gaza osservandola dal finestrino di un veicolo, e al modo in cui il suo pianto diventa una (nostra) possibile soggettiva su quegli eventi, in Ana Arabia si assiste ad una scelta di verità molto simile; rimanendo al di quà della semplice testimonianza documentale e allo stesso tempo cercando di renderla possibile e stratificata senza frammentarla, Gitai trova un modo per essere nelle cose, racchiudendone i segni in uno spazio performativo che sia liberamente percorribile anche dal nostro sguardo; il peregrinare incerto di Yael, il suo prendere appunti in modo discreto, quasi di nascosto, per non interrompere il flusso naturale del racconto, la sua commozione in campo ma ormai fuori da quello visivo delle donne, che ormai si è lasciata alle spalle, sono un continuum di emozioni in movimento, interrotte solamente da un paio di Dolly che alzano l’occhio così da presentarci questo piccolo esempio di convivenza, con la prospettiva caotica della città alle spalle.

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