Prima di diventare un film, l’Arte della Felicità era ed è una manifestazione di cultura apolide ideata da Luciano Stella che ha come teatro la città di Napoli; attiva dal 2005 mette insieme professionalità creative molteplici. L’idea di trasformare parte dell’esperienza in una vera e propria factory arriva nel 2010 quando viene fondata MAD Entertainment, laboratorio di musica, cinema documentario e animazione che oltre a Stella, vede tra gli artefici i produttori musicali Antonio Fresa e Luigi Scialdone.
L’arte della felicità, il film, cresce in seno a questi stimoli e attraverso una serie di dissertazioni tra Stella e Rak su alcuni principi filosofici relativi al passaggio ciclico tra la vita e la morte.
In una Napoli piovosa o oscura, diversa da certa iconografia forzatamente mediterranea, Sergio è un ex musicista di talento che ha abbandonato la musica; per vivere adesso fa il tassista, un microcosmo che non racchiude semplicemente esempi di varia umanità, ma che si apre all’immaginazione di mondi paralleli; passano schegge di vita e si materializzano memorie come in un film di fantasmi; il fratello che ha scelto la strada del Buddhismo Tibetano, un Dj che dalla radio si interroga sui misteri della vita con piglio apocalittico, una ragazza in fuga che ha la musica nell’anima.
Attraverso questi stimoli, Alessandro Rak e la sua equipe di lavoro elaborano un esempio raro di animazione per quanto riguarda la storia filmografica del nostro paese, lontani dall’obbligo favolistico che vede spesso nell’infanzia i destinatari privilegiati per questo tipo di cinema, il disegno tra 2d e modellazione 3D de L’arte della felicità sembra guardare ad alcuni esempi orientali, nella resa di un movimento sintetico e affrontato per sottrazione, legato al disegno animato tout court senza l’ossessione di ricalcare quel realismo che parte da sequenze live-action, dall’altra ricorda i momenti di massima libertà nel cinema Americano che tra il ’70 e l’80, guardando la propria storia, recuperava tutta la tradizione dei Jazz film dei primi anni ’30 pensando proprio all’animazione di Max Fleisher.
Ci è venuto in mente in questo senso, uno dei film meno conosciuti di Ralph Bakshi, American Pop, storia fantasmagorica e mutante della musica popolare americana durante il ventesimo secolo, che già nel 1981 univa moltissime tecniche, tra cui i primi esperimenti di computer grafica, il disegno e alcune incursioni “disneyane” realizzate con il rotoscopio.
L’arte della felicità è più dalla parte del disegno come dicevamo, ma conserva un approccio sperimentale e sincretico molto simile al film di Bakshi, con la musica che diventa il propulsore principale per la mutazione a vista dell’universo animato. Erano anni che in Italia non si vedeva un film del genere in grado di recuperare la forza astratta e visionaria dell’animazione in direzione sinestetica; basta pensare alla sequenza in cui Sergio fa emergere dalle parti di un discorso, l’evoluzione armonica e ritmica di un brano; mentre descrive le forme lessicali, i modi e i toni della parola, questi vengono ripetuti in un duello serrato dalle scale, i cluster, le note del pianoforte.
Non è solo un esempio della nascita di un brano musicale e del suo valore semantico, ma è anche l’idea dell’animazione nel suo farsi, come segno che spezza i limiti del quadro per fuoriuscire in mille direzioni.
L’arte della felicità è un film ricco di sfumature, contiene al suo interno moltissimi percorsi, è un cinema filosofico ma sopratutto di “poesia”, e non ci riferiamo a quella scorciatoia che a tutti i costi sceglie un’immagine già data come poetica, ma ad un processo più ricco che cerca di visualizzare l’essenza indescrivibile dell’emozione nel suo farsi semplicemente movimento, colore, tratto; in una parola: cinema.