martedì, Novembre 5, 2024

Locke di Steven Knight a Venezia 70: la recensione

Esterno notte per un thriller ad alta tensione, Locke è una storia molto classica nel suo genere: un uomo, Ivan Locke, famiglia e lavoro perfetti su cui ha puntato le migliori energie, vede saltare all’improvviso tutte le coordinate della sua esistenza e deve fare scelte, confrontarsi con la sua vita, decidere quale sia il suo grado di moralità.

Nell’impianto classico la novità è nella tecnica di ripresa, 90 minuti registrati in tempo reale, con l’eroe diegetico che conduce l’avanzamento della storia stando seduto al volante della sua auto per l’intera durata.

Il dinamismo è affidato allo spazio esterno che irrompe nell’abitacolo, fatto di luci e rumori (siamo su un’autostrada, “il posto più noioso al mondo” dice il regista in conferenza stampa) e dalla corsa compulsiva ad ostacoli affidata unicamente al telefono di bordo di Ivan, un Tom Hardy padrone assoluto della scena.

Una cinepresa adrenalinica lo tallona (anzi tre, con angolazioni diverse, sistemate nell’abitacolo) e il pubblico è come risucchiato in una identificazione collettiva con il protagonista.

Un modello ancestrale (l’eroe alle prese con la sfida sovrumana nella quale la posta è perdere tutto o risorgere) calato nella realtà di barriere di cemento, svincoli e segnaletica, nastri autostradali che sfrecciano nel buio, giungla d’asfalto labirintica e ossessiva in fondo alla quale perdizione o redenzione giocano l’ultima partita.

Opera seconda, dopo Redemption, dell’inglese Steven Knight, Locke è un drive movie che scompiglia tutte le regole del genere, pur adottandone i codici espressivi. Non è infatti una fuga, non c’è un crimine, non si tratta di un regolamento di conti né si rincorrono guardie e ladri verso il crash finale. Eppure l’ambientazione è di quelle classiche, in notturna, luci psichedeliche che creano riverberi impazziti e piattaforma sonora fatta di vorticosi climax strumentali in continua sovrapposizione con il rombo del traffico.

L’unicità di Locke è nella dimensione totalmente e semplicemente umana del protagonista, un uomo senza qualità che il caso chiama ad uno di quei rendiconto ai quali ci si può tranquillamente sottrarre, un po’ di cinismo e via, e il mondo continuerà a girare come prima, o, viceversa, si potrà decidere di affrontare la sfida, e il prezzo da pagare sarà molto alto.

Una roulette russa con la vita, in definitiva, e Ivan l’accetta. Per novanta minuti, un’ora e mezza di autostrada fino alla meta, entra in quell’abitacolo tutta la sua storia passata, esplode il suo presente e si prefigura il futuro sotto forma di voci al telefono che si rincorrono incessanti: moglie, figli, datore di lavoro, collaboratori, la donna che sta per avere un figlio da lui, e perfino, in finale, il vagito del neonato.

E quel display che s’illumina continuamente sul cruscotto ci diventa dopo un po’ così familiare, con i suoi nomi pulsanti a intermittenza, che quasi ci sembra di poterlo usare noi, anticipando Ivan. Lui, one man show, guida, parla, risponde, fa fronte ad emergenze del lavoro, a casa, cerca di tamponare con kleenex a go go un raffreddore pazzesco, para colpi da tutte le parti.

Proiettili che arrivano in viva voce, e la sua vita crolla, un pezzo dopo l’altro. Ma, attenzione, la sua vita precedente.

Da questo mirabolante e incandescente viaggio au but de souffle sta nascendo un uomo nuovo, ed è questo nuovo Ivan che a tratti parla dal vivo con l’unico personaggio che non può telefonare perché non c’è più, è morto, ed è il padre. Quando Ivan si rivolge al padre, o meglio, quando impreca contro di lui, un maledetto ubriacone che l’ha abbandonato alla nascita e non l’ha mai riconosciuto, la mdp inquadra il sedile posteriore visto dallo apecchietto. E il vecchio lo vediamo lì, anche se non c’è, come “vediamo” le voci di tutti gli altri.

Mai automobile fu più abitata come quella di Ivan Locke in corsa verso la sua palingenesi! Cosa è successo efettivamente a Ivan non va detto, sarebbe un danno per la visione, basti sapere che si è davanti ad una di quelle perle che capita poche volte di incontrare al cinema. Tom Hardy si riconferma quel perfetto animale cinematografico di razza pura superiore di cui ha già dato ampia prova, una metamorfosi fatta persona, una capacità di tenere da solo la scena e lasciarsi seguire senza fiato che appartiene al Gotha degli attori.

Infine, ed è il valore aggiunto di un film costruito con equilibrio perfetto di tutte le sue parti, va detto della fotografia di Haris Zambarloukos quanto grintosa e travolgente è, perfetta per una sceneggiatura che non ha tentennamenti, porta noi e Ivan dove vuole che arriviamo, in fondo in fondo, lì dove si raccoglie quel grumo di sentimenti, paure, desideri, che si ha paura di sciogliere.

Si può vincere o perdere, Ivan stavolta vince, ma non è detto che tutti gli altri perdano, diventerebbe un film banale, e non lo è. Ognuno ha le sue buone ragioni per essere quello che è, è il gusto medio della vita, con qualche eroe che, di tanto in tanto, ci scappa.

 

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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