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Via Castellana Bandiera di Emma Dante a Venezia 70: come è sola la strada

Emma Dante, nel descrivere la Compagnia Sud Costa Occidentale fondata dalla drammaturga e regista Palermitana nel 1999, parla dello spettacolo come “teorema della menzogna” e di un processo di generazione della parola che precede la sua definizione come “segno”; ci viene in mente quello che Chiara Guidi ha raccontato a Indie-eye attraverso questa ricca video intervista, realizzata in occasione di “Ingiuria”; per la Guidi la parola è come un “sasso” lanciato dalla gola, è un oggetto trasfigurato, un onda emotiva, una drammaturgia del sentire; quello che si perde, nella sua ripetizione, sono le tracce di una trama, è il significato a dissolversi. Per Emma Dante questo stesso concetto forse lo si potrebbe applicare alla relazione con lo spazio, una Palermo conosciuta a partire dalle viscere, che non diventa mappatura spettacolare di un territorio, ma penetrazione estrema del suo interno, cicatrici e crepe comprese.

Una vecchia signora vestita di nero ammorbidisce il pane per nutrire un piccolo branco di cani randagi, è al cimitero e ha appena cambiato i fiori ad una tomba, spazzato la lapide tutt’intorno, pulito lo spazio tra la terra e il marmo dalle foglie secche; finito il lavoro ci si distende sopra come ad abbracciarla.

Via Castellana Bandiera inizia con una perdita del “Se”; Rosa (Emma Dante) e Clara (Alba Rohrwacher) sono in macchina, tra di loro c’è tensione, devono raggiungere la festa di matrimonio di un amico e si perdono per le strade di Palermo. Emma Dante filma a distanza ravvicinata, coglie alcuni dettagli, Clara che schizza un disegno su un blocchetto, sono i suoi piedi nudi stesi sul cruscotto della macchina, Rosa guida nervosa, vuole andarsene da Palermo, per lei probabilmente un ritorno doloroso, ma non sappiamo molto delle loro storie, perchè l’esordio di Emma Dante, fino a questo punto, è di quelli attenti alla sensorialità delle immagini, inizia in medias res, non cerca una sutura, non si affida alle parole per spiegare, ma si fa carico di un disorientamento che condurrà ad un vicolo cieco; costrette a cambiare percorso, Rosa e Clara si troveranno incastrate in una viuzza, Via Castellana Bandiera, dal senso opposto, una seconda macchina con tutta la famiglia Calafiore, guida Samira (Elena Cotta), la vecchia del cimitero. La strada non consente il passaggio contemporaneo delle due macchine, e nessuna delle due vuol tornare indietro, i Calafiore abitano a pochi passi e anche Rosa non intende cedere.

Lo spazio diventa allora chiuso, un piccolo teatro di guerra dove le due donne comunicano dall’abitacolo delle loro macchine con sguardi, gesti, segni che affondano le loro radici in un rituale arcaico, mentre i movimenti centripeti della gente del posto convergendo sullo scontro delineano un’antropologia complessa organizzata dallo sguardo maschile.

Rosa e Samira segnano letteralmente il territorio ma la loro durezza non ha nessuna relazione con la violenza degli uomini, perchè mentre questi sono disposti a rovesciare qualsiasi legge naturale pur di dominare il corso degli eventi con il denaro, le due donne riconoscono la terra come luogo, anche doloroso, di appartenenza.

Nel rischio che tutto questo diventi organizzazione chiusa della scena, Emma Dante disinnesca continuamente l’arena chiusa dello scontro con delle crepe nello spazio, vere e proprie derive che liberano lo sguardo altrove, complicando la tessitura, sostituendo ancora una volta alla parola l’ambiguità dei segni; sono i disegni di Clara, dove Emma scopre, al di là delle parole, un’immagine di se stessa diversa da come forse si era sempre immaginata, vedendosi per la prima volta “vista”, è il canto di Clara mentre abbraccia Rosa, unica musica “diretta” che commenta il film, accompagnata nel suo incedere da filastrocca dal viaggio libero della macchina da presa che scandaglia pareti, scale, pietra, asfalto, il tempo che ha crettato il piancito.

La scelta di non utilizzare musica si interrompe nel piano sequenza conclusivo, non sono semplicemente le note di Cumu è sula la strata che riempiono lo spazio fissato nell’inquadratura, ma è la corsa quasi processionale della gente, che sembra muoversi sui passi di una danza disperata verso un orizzonte invisibile.

 

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