L’oggetto cinematografico con cui Kervern e Delepine sbarcano per la prima volta al Lido, nella calzante cornice della Sezione Orizzonti, si rivela un distillato sferzante e scientemente repulsivo della poetica funerea ed autarchica messa in scena nei dieci anni di connubio lavorativo, un linguaggio irriguardoso da sempre impegnato a remare contro il cinema dal suo interno, digerendo i concetti di commedia, fotogenia e personaggio per restituirceli in forma di rovine, arrivando in Mammuth a sottoporre a questo processo di disfacimento il cinema francofono stesso, nella persona di Gerard Depardieu.
Di questo Near Death Experience la coppia di registi belga sbandierano con fermezza la natura post-cinematografica e residuale, riservando all’apertura della pellicola l’apparizione fantasmatica e immersa nel rumore bianco di una dei titoli di coda e cominciando una narrazione dopo averci fatto scorrere davanti la dichiarazione della sua stessa fine. Non è quindi un caso che nella loro ricerca di soggetti esangui e in decadenza si siano rivolti in questo caso al broncio sdentato e alla figura ossuta di Michel Houellebecq, corpo preso in prestito da una forma narrativa senza schermi, estranea al visivo, e ospitato nel terreno neutrale di un racconto per immagini e voce narrante.
Lo scrittore francese interpreta Paul, impiegato di mezza età che un giorno esce di casa, prende la bicicletta e va in montagna a suicidarsi. Ma per uno che si è sempre considerato un codardo e un mediocre, l’insano gesto non è un’impresa da nulla e la gita fatale si trasformerà in un monologo interiore durante il quale elaborare rimpianti, motivazioni e prendere il coraggio a due mani. “Paul, tu parli troppo e ti suicidi troppo poco” si rimprovera il protagonista nel mezzo delle proprie divagazioni, in un raro momento in cui il personaggio e il film stesso sembrano tornare a preoccuparsi dello scorrere del tempo, autoesiliatisi in una dimensione in cui la spietata coscienza di avere lasciato tutto alle proprie spalle sembra aver cancellato i tempi, gli impegni e i pudori della società civile. Inguainato in un’umiliante tutina ciclistica, Paul si gode la sua nichilista liberazione concedendosi improvvisi exploit vitalistici degni di un idolo dei teenager: si agita a tempo di hard rock fiero del proprio eclatante declino fisico, gioca a biglie e imita la camminata degli astronauti come un bambino, disturba candidamente i campeggiatori con irriverenti burle alla Jackass.
Svaniscono allo stesso anche i timori “grammaticali” della macchina da presa, che Kervern e Delepine lasciano fluttuare tra i paesaggi montani incuranti, anzi compiaciuti, di inquadrature fuori fuoco, tremolii ingiustificati e composizioni irregolari e anti-estetiche. Come prevedibile, una delle direzioni ostinate e programmatiche del film è quella di soffocare ogni possibile connotazione spirituale e trascendente di questa ‘”esperienza di pre-morte”, ancorandola al livello del terreno brullo e arido: il paradiso ricorda la desolazione del paesaggio lunare, per ascendere bisogna ruzzolare giù da un dirupo,le apparizioni dei famigliari non sono altro che cumuli di roccia, quelle che sembrano voci celesti riecheggiano in realtà tra i neurotrasmettitori del protagonista, il quale riserva l’apice del suo sdegno per la vita quando una sconosciuta tira incautamente in mezzo l’astrologia.
Near Death Experience non vuole essere altro che un detrito narrativo, una scheggia di materiale audiovisivo che racchiude in sé l’amarezza dissonante e caustica dell’opera dei suoi registi, alfieri incuranti di un cinema reduce di sé stesso.