Jake Mahaffy affronta un fatto di cronaca legato alla morte di un bambino a causa di un intervento di guarigione perpetrato ai suoi danni da una comunità aderente alla chiesa Pentecostale. Il regista nativo dell’Ohio torna a lavorare con un team di non-attori del posto come per il precedente Miracle Boy, corto presentato proprio a Venezia nel 2012 sempre nella sezione Orizzonti. Dal West Virginia si sposta a Memphis ed entra nella comunità religiosa afro-americana seguendo la vita di una coppia con a carico un figlio affetto da una grave forma di autismo. Più che allo scontro tra scienza e fede, Mahaffy si interessa al rapporto tra sistema sanitario statunitense e religione, fede e vita quotidiana. Abbandonati dai dottori, Abe (David Harewood) e Melva (Edwina Findley) si trovano a dover affrontare la furia del figlio e delle sue violente crisi tanto da avvicinarsi lentamente all’ipotesi della guarigione sacra e della possessione diabolica, anche se questa non viene mai citata esplicitamente.
Mahaffy ha raccontato in conferenza stampa qui a Venezia di aver rinunciato alla realizzazione di un documentario tout court dopo alcune difficoltà verificatesi durante le interviste con le persone coinvolte nei fatti del 2003, ma nonostante questo ha mantenuto un contatto diretto con la comunità del luogo, introducendo i suoi attori in mezzo ai fedeli della chiesa pentecostale e stabilendo di fatto un rapporto di empatia con tutti.
È una commistione percepibile, non solo per la durata che Free in deed dedica allo svolgersi delle funzioni religiose che assorbono lentamente il film in una dimensione dalla forte energia partecipativa, ma anche per il modo in cui questo stesso spazio passa dalla rappresentazione del rito collettivo ad una prossimità che indirizza la preghiera al nostro sguardo, tanto da rivelarne le qualità non solo simboliche, ma sopratutto quelle comunitarie. Mentre sembra di far parte della chiesa Pentecostale diventa quindi difficile distinguere gli attori dai fedeli e allo stesso tempo giudicare l’esistenza di una comunità che decide di darsi delle regole di vita con un’intensità che buca, letteralmente, lo schermo.
Quando l’imposizione delle mani e il linguaggio del corpo che si sovrappone ad uno stato di trance diventa un ipotetico veicolo di morte, Mahaffy distoglie lo sguardo, dopo averci fatto entrare completamente dentro la pratica di guarigione, restituendoci le contraddizioni e la difficoltà di accettare l’irrazionalità della fede come strumento per affrontare la malattia mentale.
È interessante il modo in cui il regista americano introduce alcuni elementi di disagio sociale mettendo a confronto le istituzioni politiche con il ruolo della chiesa pentecostale; non è solamente la fretta e l’incuria dei medici di fronte ad una famiglia che non può permettersi un’assistenza sanitaria adeguata, ma anche le anziane signore della comunità religiosa che somministrano cibo ai poveri mentre le forze dell’ordine le vogliono allontanare, in mancanza di una licenza regolare.
Da una parte Mahaffy ci mostra una realtà oltre e sopra la legge, legata ad una ritualità tribale ma allo stesso tempo desiderosa di mettersi in contatto con gli ultimi, dall’altra le istituzioni sociali, indifferenti rispetto al dolore delle persone.
Nel confronto definitivo tra l’evangelista e le forze dell’ordine, c’è una sconnessione tra le immagini brutali filmate durante il rito di guarigione e la morte del ragazzo che rimane fuori campo; Mahaffy mantiene il dubbio e allinea lo sguardo a quello dell’esorcista, incredulo rispetto al fatto che il potere della fede possa condurre alla morte.
Un sentimento rispetto al quale il regista americano riesce a restituirci tutta l’ingenuità e il dolore con quella straordinaria sequenza che replica il percorso della via crucis nel trascinarsi dell’evangelista lungo tutta la chiesa fino all’altare. La macchina da presa è carponi, alla sua altezza e conferma il metodo di osservazione di Mahaffy, in una dimensione immersiva che non esclude la possessione come strumento di interpretazione del reale.