Home festivalcinema Venezia72 Man Down di Dito Montiel – Venezia 72, Orizzonti

Man Down di Dito Montiel – Venezia 72, Orizzonti

Gli ultimi 10 minuti di Man Down ci rivelano quello che il film avrebbe potuto essere, e probabilmente era in fase embrionale: un soggetto non particolarmente originale ma efficace, ottimo per costruire un onesto thriller psicologico di cassetta, di quelli giocati su un groviglio di piani temporali sciolto solo nel finale (ipotetico modello di riferimento, la formula alla base del successo del primo Nolan).

Invece, se nella struttura un vago scheletro di questo progetto rimane in piedi, il ritmo e l’intenzione registica sembrano appartenere ad un altro film, sviluppandosi controllo su temi e pratiche di messa in scena cari a Montiel fin dagli esordi: il rapporto impossibile tra padri e figli e l’amicizia virile, trattata con grande dispendio di slang, diverbi e colloquiali sfottò, per sottolineare la coabitazione tra confidenza e rivalitá. Ne potrebbe risultare un interessante esperimento di racconto, se nei fatti anche questa seconda strada intrapresa dal film non fallisse piuttosto sonoramente i propri obiettivi.

Ad una decina d’anni da Guida per Riconoscere i Tuoi Santi, che sembrava aver indirizzato su binari sicuri la carriera di entrambi, il nuovo sforzo congiunto di Dito Montiel e Shia LaBeouf si rivela in effetti un deciso passo falso.

Gabriel Drummer è un reduce dell’Afghanistan che vaga alla ricerca del figlio in un’America in rovina, devastata da un oscuro conflitto nucleare. Nei flashback assistiamo ad un colloquio con lo psicologo militare in cui Gabriel ripercorre con la mente il suo passato recente, l’addestramento tra i marine con l’amico di una vita, la partenza per il fronte afghano, il rapporto affettuoso, per quanto complicato dalla guerra, con la moglie Natalie ed il piccolo Jonathan.

La descrizione e lo sviluppo in termini atmosferici dell’ambientazione distopica, centrale per conferire mistero e tensione alla trama e coinvolgere lo spettatore nell’intreccio che si dipanerà nel finale, vengono deliberatamente lasciati ai margini del racconto, relegati a brevi e confuse sequenze immerse in un posticcio grigiore in CGI (una una scelta espressiva che a posteriori potrebbe sembrare coerente, se la fotografia di tutto il resto del film non fosse immersa in un altrettanto posticcio biancore lattiginoso e melodrammatico).
Allo stesso modo, l’azione sul teatro di guerra mediorientale viene risolta in una sola goffa sequenza, che finisce per introdurre fin troppo tardi il pur delicato tema della sindrome da stress post-traumatico nei veterani, di fatto ridimensionando l’argomento a mero strumento per la facile evocazione di pathos.

Proprio l’enfatica rappresentazione dei sentimenti sembra il collante con cui Montiel intende tenere assieme i lembi involuti della trama: il compleanno del piccolo Jonathan, gli affettuosi saluti prima della scuola, il cliché del maschio cameratismo marine, paiono dilatati di proposito per lasciar sfogare il cast, e LaBeouf in particolare, in istrioniche improvvisazioni: ne è un esempio lampante la stiracchiata scena di raccordo nello studio dello psicologo, in cui il protagonista e un insospettabilmente impacciato Gary Oldman sembrano recitare a soggetto per arrivare il più tardi possibile al capovolgimento del finale.

Se le sbrodolate divagazioni sulle relazioni filiali e amicali non trovano altra giustificazione oltre a rappresentare un forzato carico emotivo da giocarsi nel finale, la sbrigativa soluzione finale non offre una sufficiente ricompensa allo spettatore per la confusa e ripetitiva frammentazione dei piani temporali.
Forse proprio questa connotazione da film in fuga da sè stesso può in qualche modo giustificare l’inclusione di Man Down nella sezione Orizzonti di questa Mostra del Cinema, lil quale però lascia dietro di sé l’amara sensazione di una pellicola in spericolato disequilibrio non tanto per una volontà o disposizione verso la sperimentazione, quanto per una pressochè totale perdita di controllo sulle redini del racconto.

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