La città è “invisivel” nel primo lungometraggio di João Salaviza, perchè rimane ai margini, penetra dalle finestre insieme alla luce naturale catturata dalla fotografia di Vasco Viana e rimane un bordo dal quale David, quattordicenne lisbonese, si affaccia mentre delinea uno spazio endogeno di intimità che coincide con il recinto della solitudine. Separato dai confini definiti della società, tra stanze in penombra, discoteche piene di coetanei e spazi suburbani senza orizzonte, cerca uno scambio amoroso, un contatto anche aspro con gli amici, persegue la delusione come percorso obbligato, quasi desiderato, mentre si scontra con l’istituzione scolastica, una dimensione lontana che il regista portoghese fa emergere dall’esterno lasciandoci ascoltare la conversazione con un’insegnante.
L’imminente morte del nonno di David incombe su tutto il film, è un destino già segnato, una presenza metafisica senza alcuna rivelazione, perchè gli adolescenti descritti da Salaviza vivono completamente nel sentimento della perdita.
C’è già quel senso di indefinitezza amorosa negli scambi tra David e Paulinha, la cui inafferrabilità rappresenta il percorso di formazione affettiva ma allo stesso tempo anela ad una libertà dagli schemi che è già adulta; non è solamente la vicinanza dei corpi, il modo in cui Salaviza filma la pelle e il contatto tra i due ragazzi, ma sono sopratutto gli spazi densi e saturati entro i quali si verificano gli incontri così vicini e così lontani, tra attrazione e distanza. Il sudore, la simbiosi con il proprio letto, il pulviscolo investito dalla luce che segna l’immutabilità del tempo, gli oggetti che saturano lo spazio angusto di una camera, sono lo sguardo che Salaviza fa cadere su oggetti e ambienti per avvicinarsi all’immagine indicibile dell’adolescenza.
Salaviza stesso riconosce nella solitudine di David un aspetto profondamente legato alla città di Lisbona, nella sua relazione con gli spazi svuotati e derealizzati della città dove non c’è adolescenza e la visione urbana è quasi sempre fluttuante, osservata dall’alto e con i corpi dei ragazzi che gravitano in una dimensione distante, irraggiungibile, protetta ma anche irrimediabilmente solitaria. Quando al contrario è nelle cose, c’è sempre un muro, un contrasto, un orizzonte negativo oppure un incendio che allude ad una fiamma dolorosamente interiore, come la vespa rubata che David brucia.
João Salaviza realizza un film splendido, con sorprendente vicinanza alle cose e ai corpi, rimanendo sempre sul bordo tra empatia e osservazione dolente e avvicinandosi alla profondità dei grandi autori portoghesi nella relazione tra immagine e tempo. C’è una vicinanza nel suo cinema che va oltre la relazione con gli attori, perchè il tentativo è proprio quello di descriverne l’essenza e la verità oltre la messa in scena, nella relazione costante tra corpo e vuoto improvviso, chiusura e luce, libertà e solitudine.