Tra l’aprile e l’agosto 2016 William Friedkin era in “ferie” su territorio italiano per una serie di impegni, tra cui uno al Lucca Film Festival. Il “travelogue” demoniaco di The Devil and Father Amorth si colloca proprio in questo periodo e assume, almeno in superficie, le caratteristiche di un piccolo diario turistico, con pochissimi esterni a far da raccordo e la vicinanza intima e documentale di una DSLR come cuore pulsante dell’immagine stessa.
Rispetto alla truffaldina pseudo-antropologia di “Liberami”, il film di Federica Di Giacomo presentato la scorsa edizione proprio qui a Venezia, Friedkin segue un percorso diametralmente opposto per avvicinare la prassi del rituale esorcistico.
Il primo aspetto, come dicevamo, è legato all’onestà della dimensione personale. Le immagini filmate a Georgetown sui luoghi dove veniva ambientato L’Esorcista, contengono i segni di un percorso che attraverserà tutta la filmografia di Friedkin e che qui si manifestano in modo diretto nelle dichiarazioni di intenti del regista americano.
Lontana dai rischi della celebrazione è proprio la dimensione intima e “invisibile” del racconto. Il contatto con Padre Amorth avviene sulla base di un interesse mai sopito da parte di Friedkin per le origini del male e nel permesso concessogli per filmare l’ultimo rituale del principale esorcista della diocesi di Roma, si trova ad accettare le condizioni immersive per poter svolgere il suo lavoro: nessuna luce, nessuna troupe al seguito, solo Friedkin con una piccola DSLR dotata di microfono on board.
Chi conosce bene la lavorazione de L’Esorcista sa anche che l’origine di quella paura insita nella dimensione temporale dischiusa dalle immagini Friedkiniane era il frutto di un contrasto formidabile tra la flagranza (o supposta flagranza) di alcuni momenti, con un apparato prostetico controllato con sadismo e meticolosità langhiane. Persino le immagini che consentono di riprendere la caduta verso il pavimento dell’ospite preso per i testicoli da Regan simulano un corpo a corpo che, con l’effetto dell’immagine soggettiva, cela l’impiego di un apparato meccanico di una certa importanza.
D’altra parte, tutti i “missing pieces”, le scene tagliate, i backstage e i numerosi documentari realizzati in quel periodo, fanno emergere una terribile forza documentale in termini di intensità e vicinanza al soggetto filmato, attraverso i momenti dove Regan viene sottoposta ad un’infinita serie di analisi cliniche. Le simmetrie della scienza facevano già più paura del diavolo, nell’insistenza con cui si cercava di snidare un nemico psichico primigenio per la religione e il razionalismo stesso. La capacità di Friedkin di costruire un documento di rara intensità, in grado di evidenziare questa frizione, rimane tutt’oggi insuperata.
Quella stessa flagranza, fuori dal contesto e dalle necessità industriali, si mostra in questo diario intimo Friedkiniano alla ricerca del diavolo, senza alcuna mediazione, senza la necessità di correggere l’immagine, incluso l’assestamento del fuoco automatico.
Eppure Friedkin sa dove guardare e cosa guardare, e i volti di Cristina, la giovane donna posseduta, e di Padre Amorth, sembrano contenere il mistero delle numerose maschere che infestano, anche subliminalmente, il suo cinema, dall’esorcista a The Sorcerers, arrivando fino a Jade.
“Quando il demonio possiede una persona – raccontava Padre Amorth a Focolare della Madre – dice continuamente: questa persona è mia, me l’hanno data, mi è stata consegnata, mi appartiene”. L’interrogazione di un atto di fede e una lotta per la possessione/spossessamento, appartenenza ambigua in tutto il cinema di Friedkin, a partire da quel “male contro il male” di cui padre Merrin è primo testimone in medio oriente.
Del resto, quando Friedkin incalza la dichiarata “debolezza spirituale” di un vicario della chiesa losangelina, emerge tutto l’imbarazzo post conciliare di una Chiesa che ha perso totalmente il contatto con una spiritualità incompromessa, a favore di una visione sociale priva di contrasto interiore.
Friedkin sembra acutamente convinto di questo, anche quando di sfuggita fa entrare nell’inquadratura il volto dell’attuale santo padre mentre dal calendario di Tv 2000 sorride sopra il volto contorto dal demonio della povera Cristina.
Il punto quindi, ancora una volta, non é crederci o meno, schernirsi con una battuta di sufficienza o peggio ancora rifugiarsi nelle autodifese razionaliste, quanto individuare il male dentro un ambito comune, famigliare, attraverso un’immagine stratificata, che in virtù della sua semplicità, contiene già tutto.
E di famiglia si tratta quando le immagini di possessione si alternano ai motti di spirito di Padre Amorth, al suo dialogo con il demonio e ai festeggiamenti del suo 91/mo compleanno, tra un “recede”, un ghigno e un sorriso di Cristina.
L’oggettività per Friedkin è piccola cosa, perché ciò che conforma e seleziona il reale è sempre la posizione dell’osservatore. Ecco che la fede, anche quella scientifica, appare come “deliberata allucinazione”, mentre la vita, anche quella dentro la stanza di un piccolo esorcismo, diventa conoscenza degli antipodi e suo superamento.
Il soprannaturale, le deformazioni corporee, il gas invisibile che gonfia il ventre, il corpo che assume capacità straordinarie fino a strisciare per terra, sono racconti ricorrenti per chi abbia anche solo una volta dialogato con un esorcista. Friedkin li lascia fuori per rimontarli nell’unico momento affabulatorio e mediato in cui ci racconta una storia davvero incredibile. Una storia di appartenenza in fondo, ci credereste?