Xi You è uno dei grandi classici della letteratura cinese: pubblicato nel 16mo secolo durante la dinastia Ming, documenta il pellegrinaggio del monaco Buddista Xuanzang durante il suo viaggio in occidente, alla ricerca di segni e testi sacri da raccogliere tra difficoltà e sofferenze. Il Journey to the west di Tsai Ming Liang è uno dei frammenti di un altro viaggio, quello del regista Taiwanese e della sua troupe nella velocità dello spazio urbano mentre accade nel tempo, percorsa in parallelo, o se si vuole, in sovrimpressione, attraverso una diversa esperienza dello spazio empirico, piu vicina all’immagine fugace della coscienza. Come nei 25 minuti di “Walker” filmati ad Hong Kong, i 56 di “Xi You” trovano nuovamente Lee Kang-sheng vestito da monaco mentre trascende il limite dell’immagine creando una dimensione parallela all’interno di quello che percepiamo come spazio dell’inquadratura.
Non è solamente la serie dei piani sequenza girati questa volta a Marsiglia, ed esperibili come unità contemplativa che ci consente di andarci a cercare le cose con un vero e proprio errare dello sguardo, ma è la performance prodigiosa di Lee Kang-Sheng che con il suo movimento apparente ne rivela altre direzioni, nuove configurazioni, oppure un assetto che non ci aspettavamo, come se il riflesso, la rifrazione, l’illusione della luce, si manifestassero sotto forma di improvvise epifanie dello spazio, che di volta in volta ci raccontano la natura mutevole e transitoria dell’immagine.
Lo dicevamo parlando di Stray Dogs e descrivendo un cinema che mostra in modo radicalissimo l’irriducibilità del tempo e una co-esistenza dei piani oltre i quali non è possibile spingersi, se non nella simultaneità delle installazioni transmediali, a cui lo stesso Tsai Ming Liang è ricorso in alcune versioni del progetto fuori dallo “spazio” Cinema. Ma anche in quel caso, l’illusione ottica che potremmo definire quasi Escheriana sembra puntare all’origine di quella definizione di spazio compresente e sacro nella pittura antica Cinese del paesaggio, caratterizzata da molteplici punti di vista e da una tripartizione del quadro visivo che tra il cielo e la terra si sviluppa a partire proprio dall’immagine negativa del vuoto.
Che sia l’angolo di una scala che conduce alla metropolitana, o un frammento di terra e mare tagliato dalla cornice di una superficie riflettente, o ancora il riflesso su un vetro rotto, l’increspatura del movimento e la con-fusione del volto di Denis Lavant con il frastagliarsi di una superficie rocciosa, l’immagine non è mai quella che sembra anche nell’apparente immobilità della durata.
L’incedere di Lee Kang-Sheng ha un valore quindi eminentemente performativo nell’attraversamento di uno spazio che cambia la nostra percezione e anche l’esperienza dei Marsigliesi che si “fanno attraversare” da una rivelazione della loro stessa presenza.
Quello che crediamo di aver visto è quindi “solo sprazzo”, rispetto ad una realtà temporale non nata e senza inizio.
Lo stesso Denis Lavant, forse un Clochard che incontra il Monaco in uno spazio di anti-materia non dissimile dalla distruzione che si respira negli interni di Stray Dogs, si stacca dalla propria sofferenza e mima il movimento di Lee Kang-Sheng, seguendone la stessa sincronia performativa. Un’imitazione dell’imitazione della natura e sopratutto, la ricerca della propria storia, con-tro la Storia.