venerdì, Novembre 22, 2024

Devil’s Knot – Fino a prova contraria di Atom Egoyan: la recensione

Devil’s Knot va visto più di una volta, come in tutti i film del grande regista Armeno-Canadese c’è una complessa frammentazione del punto di vista che mette in relazione aspetti identitari e famigliari, elementi legati alla conservazione della memoria e il modo in cui questa viene trasmessa, mediata e registrata attraverso il filtro della tecnologia.

Un rigore che non viene meno nelle produzioni più apolidi e realizzate in un contesto allargato rispetto al formato “indipendente” dei primi film, tanto che la sensazione di aver a che fare con titoli più tradizionali quando Atom Egoyan porta altrove le prospettive della Ego Film Arts (Il viaggio di Felicia, Where the truth lies, Chloe e questo Devil’s Knot) viene disattesa da un continuo processo di dislocazione tra i personaggi dei suoi film, i territori che attraversano e l’accidentato percorso di identificazione con cui lo spettatore deve confrontarsi.

Se forma e struttura di Adoration, tanto per intendersi, il film realizzato tra False verità e Chloe, doveva parte del suo fascino al recupero “esplicito” di un’architettura seducente ma già nota a chi conosce bene il cinema di Egoyan, è nelle produzioni più “connettive” che il nostro manda avanti la sua personale ricerca, cancellando la parte più visibile di quelle cicatrici che al contrario spingerebbero i suoi racconti non-lineari nella forma chiusa del metodo.

Egoyan ha pensato immagini sempre più stratificate e quindi di lettura più difficile e stimolante, all’interno di una stessa inquadratura, anche quando si è trovato a recuperare “motivi” visivi e ossessioni a lui care, lavorando più in profondità sugli oggetti, i segni, gli elementi materiali  del cinema “nero” e sulla relazione tra documento, memoria e sogno; basta pensare alla trasparenza, proprio “materiale”, del set di Chloe, fatto di specchi, vetri, riflessi; come a dire che il suo cinema a un certo punto ha spostato l’attenzione da quelle cicatrici di cui si diceva, evidenziate da una precisa idea di montaggio, verso una rivelazione delle stesse “nelle immagini”.

Comprensibile quindi che una critica più disattenta, magari accecata dalla seduzione del meccanismo più che dal linguaggio, abbia scambiato nel tempo questo cambiamento come una semplificazione. Devil’s Knot in questo senso è il film meno conciliante di Atom Egoyan per svariati motivi, prima di tutto per un’apparente e ipnotica staticità che lo lega non solo alla dinamica di un “courtroom drama”, di cui disinnesca la retorica, e che sembra non combaciare con uno storytelling apparentemente più tradizionale.

Da una parte quindi i dialoghi della coppia Scott Derrickson / Paul Harris Boardman (The Exorcism of Emily Rose, e i prossimi Deliver Us from Evil e Two Eyes Staring) quasi interamente trascritti dall’imponente materiale documentale ricavato dal caso dei tre di West Memphis, dall’altra il tentativo di Egoyan di bilanciare la tensione tra verosimiglianza e frammentazione con una forza diversa da altri suoi film, scelta che ha prolungato il montaggio di Devil’s Knot per ben tre anni.

È lo stesso Egoyan a parlare in una recente intervista di una prima versione “più creativa, personale e interpretativa”  lasciata poi indietro perchè percepita come profondamente sbagliata. Egoyan, con un atto di responsabilità quasi “Rosselliniano” imbocca quindi la strada necessaria di un’aderenza cronologica maggiore rispetto alla libertà combinatoria operata sui testi di William Trevor, Russel Banks, Rupert Holmes, Erin Cressida Wilson,  replicando quel dissidio tra empatia e distanza che caratterizza le immagini del suo cinema, nel contesto di un caso ancora aperto, dove oltre ai segni ricavati dal supporto documentale porta avanti il suo personale discorso in quella dimensione tra sogno e veglia, l’unica dove può inoltrarsi anche quando le didascalie conclusive ci offrono l’illusione di un senso compiuto.

L’investigatore Ron Lax (Colin Firth) si occupa dei tre di West Memphis da un confine che non può oltrepassare; come altri testimoni del cinema di Egoyan (il Mitchell Stevens del Dolce Domani, Noah in The Adjuster) attraversa la storia complessa di una comunità in una posizione non dissimile da quella della macchina da presa descritta dallo stesso Egoyan quando in più di un’occasione ha raccontato la genesi di “Howard in particular“, il suo primo corto girato nel 1979, perchè forse più che in altri suoi film, il Ron Lax di Devil’s Knot assume il punto di vista di una presenza invisibile che registra gli eventi.

In stretto contatto con gli avvocati della difesa, il private eye non può intervenire se non in forma mediata, visionando i documenti, il  materiale audiovisivo e ricombinandoli in una sua lettura dei fatti, ma la sua posizione sembra una versione più tragica dell’Atticus Finch di Harper Lee / Robert Mulligan; mentre rileva il valore falsificante della parola, osserva come un fantasma lo svolgersi dei processi.

Fuori dalle regole ma anche dal contesto professionale della Giurisprudenza a un certo punto, in una sequenza tanto semplice quanto potente, Lax cercherà di guardare dal vetro di una porta chiusa un interrogatorio dove il pubblico è stato invitato a lasciare l’aula.

Pensando ad altri osservatori di passaggio del cinema di Egoyan, se il mondo di Ron Lax sembra reagire con minore intensità rispetto a quello scivolamento nelle vite degli altri che caratterizza i continui sfioramenti, anche tattili (da corpo a corpo, da schermo a corpo) che sono presenti in film come The Adjuster, Exotica, Il dolce domani,  è perchè l’investigatore di Devil’s Knot può servirsi solamente della fredda ambiguità dei dispositivi di registrazione e del filtro massmediale senza poter veramente toccare qualcuno: nastri, immagini televisive, videocamere di sorveglianza, testimonianze che Egoyan riproduce all’infinito cambiandone collocazione e senso, come quella terribile e persistente del figlio di Vicki Hutcherson (Mireille Enos), riprodotta da una distanza digitale con fissità “frontale”, come ripetizione di una stessa mitologia che si confonde di volta in volta con il sogno, la voce di un morto, un gioco affabulatorio.

La stessa Pam Hobbs (Reese Witherspoon) rimane a metà tra una retorica elaborata dal mezzo televisivo, che Egoyan riproduce senza mediazione poetica e il tentativo di ristabilire un dialogo con la memoria attraverso l’attività onirica.

L’unico gesto che cerca di spezzare la membrana che protegge l’isolamento della comunità assediata dai giornalisti è quando Pam segue una madre con il figlio in braccio, cercando di stabilire un contatto con la mano del piccolo, segno di quanto le “speaking parts” nel cinema di Egoyan siano diventate coraggiosamente connaturate al movimento dentro la sequenza (come “il tempo” nel Kim Ki Duk più bistrattato) più che ad una seducente combinazione di frammenti.

Eppure, la sconnessione tra immagine, parola e racconto, si propaga ancora una volta in mille direzioni, nonostante uno di questi elementi, la parola e lo script di Derricksen / Boardman, sembri a tratti servirsi di una funzione didascalica per orientare lo spettatore.

Se non si segue questo tracciato, il risultato può essere sorprendente e molto affascinante;  lo spazio del “courtroom drama” viene reso come irrimediabilmente instabile, contratto ed espanso allo stesso tempo, si apre alla banalità (il)logica del teatro giuridico per disintegrarlo con una serie di elementi centrifughi.

La testimonianza di Vicki Hutcherson è uno dei tanti esempi: mentre Egoyan nidifica le testimonianze mettendo Ron Lax nella posizione di ascoltare un racconto di terzo grado,  esce subito dopo e impercettibilmente dall’aridità documentale frammentando il racconto dell’Esbat. Il rituale a cui avrebbe preso parte Vicki rimane a metà tra testimonianza e fantasticheria e mentre nel caso del figlio la confessione ha la fissità cangiante dei “nastri di Krapp”, quella della madre cambia senso attraverso le immagini di un film in stile “hammer horror” che la donna guarda dal televisore sulla veranda di casa, quasi ad introdurre un dubbio visivo che quel rituale abbia mai avuto luogo, se non in un tempo “della visione” di cui Egoyan tra l’altro non ci offre alcuna connotazione.

Del resto quando Pam e Ron si incontreranno nello spazio delimitato da un chiarissimo ed esplicito “no trespassing”, anche il dialogo che sembra quello più didascalico di tutti, è una contrazione degli elementi di cui si parlava, dove la solitudine rispetto alla morte, sembra l’unica certezza.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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