Hans Petter Moland torna a lavorare con Stellan Skarsgard a tre anni di distanza da “En ganske snill mann”, e come per quel film mette insieme famiglia e crimine nel tentativo di denudare la logica del secondo e riformulare l’assetto della prima. Niente di nuovo e originale ovviamente, se non per questa dislocazione Norvegese di un revenge movie continuamente messo in abisso e che filma appunto la vendetta come fosse un effetto domino ridotto alle sue funzioni meccaniche.
Nils Dickman (Skarsgard) è un immigrato tedesco che guida veicoli pesanti adibiti allo smaltimento della neve, con i quali spiana le strade di una piccola cittadina norvegese. Quando il figlio adolescente si imbatterà in un gruppo di pericolosi trafficanti di droga, verrà massacrato, e ritrovato morto, gravido di eroina. La polizia archivia il caso e Gudrun, la madre, ingoia la realtà. Chi non accetta questa versione è proprio Nils, convinto dell’estraneità del figlio a quell’ambiente, un’ostinazione che da subito causerà le prime dolorose frizioni con la moglie.
Grazie ad un amico del figlio, Nils riuscirà a ricavare la lista di un gruppo di trafficanti transnazionali, tra cui una fazione Serba guidata da Papa (Bruno Ganz).
E’ l’inizio di una serie di esecuzioni senza sosta, la cui violenza contrasta con la bianchezza del paesaggio e con l’asetticità degli interni progettati da Jorgen Stangebye Larsen, grazie ai quali lo stesso Molland costruisce una serie di gag basate proprio sulla distonia tra spazio e corpi, quasi per minare dall’interno gli “interiors” famigliari, in un bizzarro succedersi di visioni e strategie domestiche, inserite in un contesto mafioso. Ma In order of disappearance applica la lente deformante della commedia grottesca sulla ieraticità dello spazio come un dato semplicemente ambientale.
Non è un caso che Molland si serva per ogni omicidio di un cartello che appunto indica l’ordine progressivo di scomparsa, una sorta di lunga sequenza di titoli che inesorabilmente, si trascinerà senza alcuna mutazione fino alla fine del film. Come a dire che l’ossessione per il quadretto o la gag ad effetto, viene dichiarata sin da subito dalla definizione di una serie di cornici, uno spazio delimitato sempre uguale a se stesso, la cui natura è semplicemente quella seriale.
Quello che non funziona, oltre all’inerzia di un’operazione del genere, è la stessa costruzione dei numeri, circondati come sono da un’imbarazzante aura vernacolare che non ha certamente la forza delle varie identità nazionali, in una direzione, per esempio popolaresca e vitale, ma al contrario rimane ancorata ad una serie di attrazioni circensi di grana grossa, destinate a rafforzare gli stereotipi più triti. Moland si conferma in fondo come un autore buono per questi pasticci da esportazione, fatti con quell’idea di dover accontentare un po’ tutti, rischiano di “somigliare” proprio a niente.