domenica, Dicembre 22, 2024

Maps to the stars di David Cronenberg: il genoma delle stelle

A pochi giorni di distanza dall'anteprima a Cannes 2014, "Maps to the stars", il nuovo film di David Cronenberg, arriva nelle sale Italiane: la recensione

Quando Benjie Weiss va a trovare una sua fan ricoverata in un letto d’ospedale, incontra gli occhi azzurri di Sam. Lui star adolescente reduce dal successo internazionale di “Bad Babysitter”, lei mangiata da una malattia del sangue che Benjie indirizza immediatamente alla sindrome da immunodeficienza acquisita. Non è così, “ho un linfoma non-hodgkin” gli risponde Sam. Per riprendersi dalla gaffe il giovane divo le prometterà di fare un film sulla sua vita dove lui stesso potrebbe interpretare la ragazza, un tentativo apparentemente cortese per assimilarla attraverso moltiplicazione. “Non-hodgkin, ma che cazzo significa? o è oppure non è!”.

Interrogando il suo assistente sulla malattia, Benji sembra suggerirci il gioco delle differenze, perché nella famiglia dei tumori del sistema linfatico, quello non-hodgkin è caratterizzato da linfociti proliferanti, cellule anomale del sangue che invece di morire alla fine del loro ciclo vitale si accumulano in una massa che diventerà tumorale; una pervasività “caotica” maggiore, per esempio, rispetto alla “locabilità” del linfoma Hodgkin dove un linfocita tumorale gigante e isolato, attrae in modo parassitario una popolazione di cellule normali.

Il fascino che la biologia molecolare esercita su David Cronenberg non è mai venuto meno, quella relazione tra individuo come unità e società come organismo multicellulare è un sistema complesso il cui funzionamento eccede l’interesse del regista Canadese per “generi” e “location”, vere e proprie membrane protettive per lo spettatore, critico o cinefilo che sia, che gli consentono al contrario un lavoro di compenetrazione e scambio possibile tra interno ed esterno.
Non ci riferiamo semplicemente alla relazione mente-corpo, nella filmografia di Cronenberg presente con una priorità dell’uno sull’altra nient’affatto schematica e spesso invertita di titolo in titolo, ma anche ad una certa fenomenologia dell’atto creativo che lo stesso Cronenberg, in una recente conversazione insieme a Piers Handling e Noah Cowan tenutasi in occasione della mostra “Evolution” prodotta da TIFF, riferisce non tanto ad un processo cinematico, protezione dietro la quale il regista canadese si guarda bene dal nascondersi, ma ad un atto quasi fanciullesco di relazione con il mondo, un gioco che assimili l’esperienza e la creazione ad un gesto positivo “in se”, come quello di un “tumore al lavoro”, tanto per recuperare una sua nota e antica provocazione.

La tentazione di montare una lente meta-lingustica è quella più pericolosa (Videodrome, eXistenZ, Maps to the stars) perché ci costringerebbe ad osservare la mappa delle stelle attraverso il punto di vista dei morti, emersi dalla vasca da bagno o a bordo piscina, quasi si trattasse di una parodia congelata dei numerosi “sunset boulevards” che proliferano nelle nostre memorie. Non sono i memoriali cinematografici, proprio intesi come liturgie, che ci interessano, né la retorica di “genere”, costruita in gran parte per affrontare le necessità tassonomiche dei giornalisti. Commedia, soap, linguaggio televisivo, il declino di Hollywood, non sono il punto e fanno parte di una rete epistemologica molto più vasta che , se dovessimo per forza farci fregare dalla seduzione del dècor, sembra casomai delineare uno spazio fantascientifico, un sembiante geometrico e razionale come quello di un’unità morfofunzionale entro la quale si avvicendano infinite metamorfosi psichiche.

Se quel pensiero critico un po’ pretestuoso che a partire da Spider colloca una cesura netta nella filmografia di Cronenberg, non facendo per esempio i conti con un titolo come “M. Butterfly”, individuando schematicamente la relazione mente-corpo come elaborazione di un processo psicosomatico rovesciato, è su la parola e sul segno che vorremmo insistere, perchè “Maps to the stars” ancora una volta, delinea esplicitamente il corpo attraverso la prima, mascherata il più delle volte da un fuorviante tour de force tra turpiloquio e motto di spirito narrativo (Havana che chiede di farsi fottere i buchi e più avanti le sue disfunzioni corporali, il piercing vaginale e i tatuaggi sulla spaccatura del culo raccontati dagli amici di  Benjie, il ciclo mestruale di Agatha) e lo fa proliferare in una mappatura impazzita dei secondi.

Prima di tutto le cicatrici di Agatha, segno visibile di un evento che ha ormai solo consistenza psichica, un fuoco che non brucia realmente perchè legato ad un doppio processo mnemonico, quello della sua famiglia, sul quale si erige tutto il loro sistema di sopravvivenza, e il ricordo della ragazza, incertezza fluttuante deformata dall’assunzione di psicofarmaci.  Attraverso “quelle” fiamme, nelle continue metamorfosi di un personaggio dentro l’altro, vedremo solamente il corpo di Christina Weiss avvolto da un’autocombustione digitale, una sequenza chiaramente realizzata con l’utilizzo di un sistema particellare, ovvero quel “motore” software che applicato in un contesto grafico, simula dinamiche fisiche (vapore, fuoco, fumo) replicandone il comportamento delle particelle.

Al di là dell’effetto marcatamente artificioso, e della quasi totale mancanza di opacità tra corpo e fiamme, facile suggestione per parlare di illusione, memoria, fantasmi, ovvero tutto il campionario di una nostalgia cinematografica (seppur declinata al negativo) che non è presente nel cinema dell’autore Canadese, ci sembra che l’interesse di Cronenberg per la metamorfosi, sopratutto dal progetto Chromosomes in poi, passi anche attraverso una riflessione sull’immagine digitale, come processo di trasformazione che coinvolge la percezione e l’atto creativo, con la stessa curiosità sistemica che ha sempre caratterizzato la sua ricerca; alla fine tra tumori, action painting e particle renditions c’è una relazione meno gratuita e più creativa di quello che si può pensare.

E se la cicatrice sul volto di Agatha sembra replicarsi su quello di Jerome Fontana, esplicitamente “en travestì” e “fasullo” come John Lone, per il personaggio interpretato da Pattinson è semplicemente una macchia, forse come quel gioco autistico che tiene occupato Benjie sul set, mentre da un grande contenitore pieno di biglie multicolore, separa ossessivamente quelle rosse, come fossero dissociazioni anomale di una coltura cellulare primaria.

Mentre le lentiggini del piccolo Roy, visibili in un bellissimo primo piano poco prima che Benjie lo strangoli , sembrano richiamare quelle sul corpo di Havana, l’appartamento dell’attrice è disseminato di quadri tra cui un  Rothko digitalizzato su tela e una serie di pitture tra dripping digitale e pittura molecolare (il quadro che si vede in profondità di campo quando Agatha è seduta sul divano è una delle esplosioni floreali di Brian Wyers) opere ad uno stadio appena precedente alla “nanofacture” di Shane Hope e a cui Cronenberg potrebbe essere interessato, proprio per le possibilità di controllo della struttura della materia, riproducibile all’infinito e “molecolarmente” con l’ausilio di stampanti 3D  come la RepRap, dispositivi in grado di autoclonarsi stampando la struttura dei propri pezzi.

La stampa 3-D del resto, insieme ai social media, di nuovo il cancro, il Festival di Cannes e svariate forme di sesso creativo, è nell’elenco delle “atrocità” che saranno parte di “Consumed“, il primo romanzo firmato da Cronenberg la cui uscita è prevista per il prossimo settembre.

Anche il corpo di Sam nella sua versione fantasmatica appare improvvisamente ricoperto di tatuaggi, una tumorale carta celeste che sembra aver sostituito il tracciato delle vene, segni di una mutazione dalla materia prostetica al digitale che ha cambiato e cambia radicalmente l’immagine Cronenberghiana lungo il corso della sua filmografia, dove alla relazione mente-corpo dovremmo aggiungere e considerare quella suggerita dalle psicotecnologie, ancora “visionarie” quando il geniale autore Canadese girava Videodrome, adesso già parte di una nuova e più complessa relazione tra corpo, mente e dispositivo.

La linea intrecciata degli incesti mette sullo stesso piano vivi e morti senza uno scarto traumatico percepibile, è certamente la lotta di un gruppo di organismi che cercano di avere la meglio sulla proliferazione di anomalie che ne minacciano l’equilibrio, ma allo stesso tempo è l’emergere dell’anomalia come nuova serie originaria, in una prospettiva che sostituisce in ogni momento sguardo oggettivo e punto di vista tanto da far pensare alla generazione spontanea di un’intelligenza artificiale ormai completamente autogenerativa. E i segni (in)visibili ci sono tutti; madre e figlia (Havana/Clarice) che si sostituiscono, per esempio in un momento dove acquisiscono l’una il ruolo dell’altra a bordo piscina, e in una diversa serie genetica (Agatha/Christina) diventano, a distanza nel tempo, vittime di uno stesso fuoco dall’apparenza digitale; la stessa “quest” che consente a fratello e sorella di recuperare gli anelli nuziali dei genitori è come un collasso di tutti i Cronòtopi del racconto; memoria digitale riprodotta a ritroso, fino a ritrovare l’origine dell’anomalia, come se si trattasse di due individui che nella loro complessa storia genetica hanno generato la proliferazione di tutti i personaggi, ma anche, con un movimento palindromo e opposto a questo,  adattamento di un sistema creativo caotico giunto ad un nuovo inizio.

Della poesia scritta da Paul Éluard “alla macchia”, come ha raccontato Cronenberg in conferenza stampa a Cannes, “Maps to the stars” utilizza proprio la natura “di circostanza”, ovvero nella possibilità originaria che Liberté, lanciata come “segno” da disseminare dagli aerei Inglesi nella Francia occupata dai Nazisti, potesse assumere nuovi significati, anche rispetto alla sceneggiatura di Bruce Wagner, il primo ad inserire il testo poetico di Èluard come dedica amorosa ad una donna da cui si era da poco separato.

Nel film vengono utilizzati solo alcuni versi in forma ripetuta e con un vero e proprio passaggio virale che mette in comunicazione sopratutto Agatha con il fratello Benjie, ha poco senso riportare il testo Francese dal momento in cui, per stessa ammissione di Cronenberg, ci si è serviti di una traduzione riveduta dal regista insieme a Wagner, in lingua inglese, ovvero di un vero e proprio consapevole “tradimento” : “on all flesh that’s in tune | on the brows of my friends | on each hand that extends | i write your name”

La scrittura di Éluard, sospesa tra delirio e tenerezza, surrealtà e metamorfosi (basta pensare alla bellissima “poesia ininterrotta” che nell’apparente semplicità si arricchisce ad ogni lettura) diventa intimamente cronenberghiana, non più la nuova carne, ma un nuovo segno, una traccia, un seme, un genoma; dalle neoplasie tumorali fino alla “cura delle parole” di A Dangerous Method il segno non è una semplificazione superficiale ma al contrario la consapevolezza di quel passaggio da analogico a digitale di cui si parlava e che mette in relazione la metamorfosi del corpo su un piano che, oltre ad avvicinare maggiormente il lavoro di Cronenberg ad alcune prospettive delle neuroscienze, mette in gioco non tanto la perdita, quanto un’evoluzione di quell’idea di tattilità, che nel Cinema di Cronenberg, come direbbe Vivian Sobchack,  ha sempre teso ad un superamento della supremazia dello sguardo grazie ad un’attività esperienziale “incarnata” che non nasce e muore solo intorno all’occhio.

Alcune delle sue recenti “exhibition” evidenziano questo passaggio con la perdita degli elementi “creaturali” nel suo cinema (la macchina da scrivere e i mostri di Naked Lunch, la Brundle capsula, i pod di eXistenZ…..) oggetti profilmici da mostrare e da toccare e che corrispondevano ad un amore per la scultura più volte raccontato dallo stesso Cronenberg.

Il fuoco non brucia più (ma non bruciava neanche in Dead Zone in fondo, dislocato com’era da una visione psicometrica virtuale) e le uniche ferite non hanno carne intorno, sono segni, oppure dripping post-pittorico (il massacro di Havana, il sangue mestruale di Agatha sul divano bianco); è il genoma delle stelle appunto,  segni di una nuova grafia multicellulare.

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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