Torna forse della parti di Four Nights With anna il grande Jerzy Skolimowski, almeno apparentemente, perchè 11 minutes è uno strano oggetto come lo era il suo terz’ultimo film, chiuso entro una visione terribile. Ma è forse una via di mezzo tra l’anima boxante e ferina di Essential Killing e quella parete che nel film precedente si elevava a separare i due mondi tra sogno e veglia, seppellendo la memoria in una tomba.
La forma è qui più esplicitamente astratta, ma allo stesso tempo l’occhio si cala per le strade di Varsavia, entra negli alberghi, sfonda le porte di alcuni appartamenti, penetra banche abbandonate e assume persino la soggettiva di un cane.
L’involucro viene eretto sull’architettura del disastro a cui tende tutto il film; undici minuti nella vita di un gruppo di persone catturate sul bordo del tempo, poco prima che l’inaspettato esploda. Ania, giovane attrice provinata in albergo da un regista di film erotici; il marito gelosissimo che cerca di raggiungerla; una ragazza che appena lasciato il fidanzato porta a zonzo il cane; un ragazzo che corre in moto completamente fatto di coca; una donna incinta ostaggio di un uomo violento, mentre gli operatori sanitari cercano di entrare nell’appartamento spaccando mobili e ingaggiando una colluttazione con lo psicopatico.
Questa furibonda escursione urbana viene ri-vista nell’arco di 11 minuti non solo con lo slittamento continuo del punto di vista, ma con l’addizione di elementi collaterali che complicano l’orchestrazione. L’unico elemento di raccordo che accomuna tutte le prospettive è il passaggio di un aereo di linea il cui rombo passa minaccioso sopra la città e che tutti i personaggi, in un tempo preciso, scorgono.
In questa mappa antropologica di Versavia, Skolimowski lavora sui suoni e li sfalsa, usando un brano rock come fonte diegetica ascoltata da posizioni diverse ed eseguito per la strada ai margini di un’area verde, ma che in qualche modo imposta il ritmo del film con quella furia improvvisativa tra jam e scontro tipica del cineasta polacco, che anche qui non viene meno, a dispetto dell’apparente architettura ad incastro.
Ma è davvero un oggetto da ricostruire quello di 11 minutes? Le immagini sono tessere di un puzzle? Ce lo chiediamo perchè il risultato non è certo l’effetto “Babel” ideato a partire dalla solita filosofia sugli accidenti del caso e neanche quello di eventuali sliding doors che si aprono e chiudono combinandosi diversamente, per poi far tornare tutti i conti.
No, non è questo, al contrario ne è il sabotaggio, tanto da spingere Skolimowski ad inserire delle anomalie ironiche, presagi apocalittici che devono verificarsi semplicemente nella forma di una distruzione dell’inquadratura, dell’assetto, del film stesso.
Il quadrante di un orologio spaccato, la visione alterata del ragazzo cocainomane e sopratutto quel puntino nero che alternativamente è una macchia sulla tela di un dipinto, i pixel “morti” di uno schermo LCD, l’impercettibile che sfugge e disinnesca una società megaloscopica ormai spinta all’osservazione di se stessa, in abisso, attraverso gli smartphone, gli schermi dei laptop, i circuiti chiusi dei dispositivi di sorveglianza, quasi a sottolineare, come ha avuto modo di raccontare lo stesso Skolimowski, la persistenza della tecnologia di consumo rispetto alla nostra scomparsa, indicando addirittura nelle informazioni che (ci) sopravviveranno rispetto ad un possibile disastro totale, la forma parodica della dimensione metafisica.
Ecco perchè 11 minutes vive di questo contrasto flagrante tra immediatezza violenta in prossimità dei corpi, con quell’essenzialità fisica che ricorda la corsa infinita del film precedente; e l’improvviso distacco che si allinea al punto di vista della sorveglianza, certamente non quella di un agente preposto, ma degli stessi dispositivi, occhi disincarnati che non hanno più alcun indirizzo soggettivo.
Con quelle tessere che diventano pixel, in una mimesi del rumore bianco che non contiene più neanche l’energia delle frequenze, c’è nuovamente la rappresentazione della città fuori dall’ambito fisico e completamente riquadrata dall’architettura dei network sociali.
Selvaggio, nichilista, vicinissimo e improvvisamente distaccato, il disaster movie di Skolimowski sembra un detonatore pronto ad innescare il propellente, un Blockbuster: una bomba ad alto potenziale.