Levanto, Riviera Ligure. Nella stessa mattina, Giulia (Donatella Finocchiaro), una donna sulla quarantina, e l’ottantenne Ettore (Giulio Brogi), in diversi ambulatori dello stesso ospedale si sottopongono a degli esami clinici il cui esito sarà decisivo per la loro vita futura. Per una strana giravolta del caso, i due s’incontrano e condividono la difficile attesa di ventiquattr’ore che li separa dal fatidico istante in cui il medico comunicherà loro i risultati. Passeggiano, ridono, chiacchierano, scherzano, si perdono e si ritrovano. Nel dialogo scopriranno, oltre alle loro fragilità, nuove risorse inattese.
Per questo suo debutto nel lungometraggio di finzione, la documentarista Fabiana Sargentini porta sullo schermo una storia d’ispirazione biografica, alla cui sceneggiatura ha collaborato il decano della critica cinematografica Morando Morandini (anche lui esordiente in questa veste). «La vita è troppo breve per avere paura» è la frase con cui la regista racchiude il senso di questo incontro, che non è una storia d’amore, semmai un’affettuosa amicizia in cui dialogano due età distanti, in un reciproco scambio virtuoso che culmina in una scoperta: anche i punti di sospensione rientrano nella punteggiatura dell’esistenza, esattamente come tutti gli altri segni di interpunzione. Il tema della maternità nel suo rapporto con l’identità femminile è molto sentito, benché manchi quel giusto distacco che ne permetta una rappresentazione compiuta e dettagliata, nei suoi più sottili passaggi psicologici. Encomiabili intenti che purtroppo non trovano un supporto narrativo ed espressivo all’altezza delle aspirazioni (con ritmi e cadute da fiction tv nostrana) e si traducono in un vasto repertorio di spiegoni che alla lunga minano anche l’atmosfera lieve e delicata del film. Alla carismatica Donatella Finocchiaro e alla vecchia gloria Giulio Brogi va riconosciuto il merito di uno sforzo costante nel sopperire a una maldestra direzione attoriale e a una palpabile piattezza nella mancata definizione dei personaggi: con due attori del loro calibro, c’erano tutte le premesse per dar vita a una coppia indimenticabile, a un fertile confronto fra due metodi di recitazione. Ad ogni modo, l’assenza di qualsiasi velleitarismo autoriale – forse il morbo più diffuso (ed esiziale) nel cinema italiano contemporaneo – e di facili escamotages drammaturgici volti a compiacere le più elementari aspettavite del pubblico, confermano l’onestà di fondo dell’operazione.