venerdì, Novembre 22, 2024

A Bigger Splash di Luca Guadagnino – Venezia 72, la recensione

Quando Harry Nilsson incontra Richard Perry nel 1971, l’occasione di mettere la sua proverbiale e anarchica insoddisfazione nelle mani di un grande stratega della produzione si concretizza nella realizzazione di uno degli album più ambiziosi e intimi della sua carriera. Nilsson Schmilsson diventerà la sintesi creativa del musicista newyorchese, dove tutte le influenze capitalizzate fino ad allora, da Randy Newman a Paul McCartney, da Brian Wilson a Burt Bacharach, verranno combinate in un amalgama sonoro capace di oltrepassare i confini generici del pop nel contrasto tra concisione e varietà creativa, gioco leggero e cupio dissolvi. Mentre Perry aggiusta la forma, Harry tracanna brandy, scrive le sue memorabili liriche e all’interno di un album fatto sopratutto di contrasti e i cui brani non superano il bozzetto da tre minuti, piazza una deriva che ne dura sette, costruita come se fosse una jam tra tutti i musicisti coinvolti nel progetto. Jump Into the fire è un brano visionario, ricco di intarsi tra diversi suoni e diverse sezioni musicali, è R&B, è psichedelia, è anche garage-punk; un inferno tenuto in piedi da una linea di basso che pompa come un ventricolo fino alla fine e senza mai arrestarsi, gridando una brama di vivere mai riconciliata.

Questo incedere vitale deve aver colpito molto Luca Guadagnino, non solo perchè utilizza il brano per ben tre volte nel suo nuovo film, ma anche per la linea ritmica e pulsante che introduce A Bigger Splash, un battito cardiaco che emerge prima delle immagini, quando ancora sullo schermo scorre l’animazione Studio Canal, per poi manifestarsi attraverso la musica degli Stones, il motorik teutonico e quell’emergenza emozionale che trascina Ralph Fiennes in una danza vitalistica e solare mentre sul piatto gira appunto, Emotional Rescue.

Nella re-invenzione de La Piscina di Jacques Deray, rifiutata più volte e poi accettata come sfida, Lavagnino cerca di mettere al centro proprio questo battito di cui parlavamo, lo fa attraverso i suoni e la musica e gli conferisce spesso forma diegetica, come nella sequenza in cui la rockstar Marianne Lane (Tilda Swinton), istruisce il suo batterista durante una session di registrazione riguardo al ritmo costante che la cassa deve mantenere nel corso della registrazione, dicendogli che è quella la linfa da cui tutto il brano ha origine, “come se fosse un cuore che batte“.

Con lo stesso spirito combinatorio, il regista palermitano, nelle intenzioni pensa quindi più alle piscine della pittura Hockneyana invece che al setting borghese del film di Deray, e come ha avuto modo di precisare, è la luce di quei dipinti a spingerlo alla ricerca degli stessi elementi cromatici nell’aria di Pantelleria.

Nella circoscritta esperienza fotografica di David Hockney, si delinea un pensiero che è ben sintetizzato dal lavoro fatto sul corpo di Theresa Russell per quell’immagine inserita nel bellissimo Insignificance di Nicolas Roeg. Hockney è spaventato dalla prospettiva scopica del “frame” avvicinandosi quindi più ad un’idea di movimento; utilizzando la fotografia principalmente come corollario e supporto teorico al lavoro di pittore, si interessa maggiormente ai riflessi acquatici, ai difetti della percezione luminosa e cromatica, alle increspature come segnali di un’immagine nel suo farsi, ma sopratutto, alla sovrapposizione dei punti di vista.
Aspetto che Guadagnino sembra assumere inserendo elementi del suo cinema e di quello che ama, in un “testo” che è anche “innesto”.

Non è solo la casa e la piscina, incastonate nella parte più aspra del paesaggio, dove i quattro protagonisti confondono sguardi, corpi, passato e presente, ma è l’espansione di quel mondo privato e chiuso nel gioco di scambi impostati dall’intreccio tra noir e melò, che esonda nelle derive intorno all’isola aprendosi ai percorsi divergenti e ri-combinati delle due coppie. Luca Guadagnino, alla ricerca delle increspature, guarda al suo stesso cinema e re-immagina Mundo civilizado, stratificando suoni, musica, passioni e i margini di un’isola entro cui perdersi e ritrovare radici ancestrali, in un film che come quello del 2005 intrecciava documentazione antropologica e racconto.
Il perdersi in una festa popolare, l’improvviso ingresso in una casa privata dove si lavora la ricotta, il tentativo di recuperare lo spirito di un cinema “insulare” dall’Harem di Ferreri, a Rossellini fino alle immagini di Antonioni girate a Lisca Bianca in un momento in cui Penelope (Dakota Johnson) si perde tra l’orizzonte visivo degli scogli, per ricamparire, nuda e in simbiosi con il paesaggio naturale.

Eppure, in questo affascinante ondeggiare tra la tensione pulsante del cuore e il rischio di perdersi, abbiamo avuto la sensazione che il cinema di Guadagnino sia troppo pensato, troppo colto, alla ricerca del riferimento e dell’intarsio ad ogni costo per lasciare andare veramente gli ormeggi; come il vinile dei Rolling Stones sul fondo della piscina insieme al cadavere di Harry, i continui riferimenti didascalici ad un cinema che non vorrebbe essere di papà, ma che di fatto, lo è pericolosamente diventato in termini museali e didattici.

Ci si aspetta allora che quel salto nel fuoco, qualcuno lo faccia davvero, mentre marginalmente cominciano ad arrivare le informazioni da Lampedusa e si osservano a distanza le tracce, appena percepibili, di una tragedia umanitaria in corso; un riferimento che ci è sembrato forzato, inclusa la nota a margine di Corrado Guzzanti che cerca di dare una collocazione ad una realtà irraggiungibile per i tre protagonisti sopravvissuti; è un brusio sullo sfondo, incapace di rovesciare la palpebra e di creare quel senso di sgomento che assale Alex e Katherine Joyce quando percorrono gli snodi Pompeiani; un dettaglio non da poco, per uscire dalla maniera e sporcarsi con la vita.

A questo proposito, proprio Harry Nilsson, grande alchimista pop, nell’accezione formale del temine, tre anni dopo Nilsson Schmilsson, pubblicava insieme a John Lennon il suo album più disperato, Pussycats e mentre incideva la sua versione rantolante della Dylaniana Subterranean Homesick Blues, la voce stava morendo e le corde vocali erano gravide di sangue.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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