Babak Hafizi è un detective che si muove sull’isola di Qeshm nel Golfo Persico intorno alla prima metà degli anni sessanta. Picchiato e drogato dalla sua stessa agenzia, viene interrogato dal boss per una serie di informazioni scottanti che sembrerebbero essere filtrate dalle indagini in loco.
Babak fa parte in realtà di un’organizzazione legata alla polizia segreta dello Scià e viene mandato sull’isola per indagare le dinamiche che hanno portato al suicidio di un prigioniero politico. Il set dell’evento è una vecchia imbarcazione abbandonata in mezzo al deserto e trasformata in una casa.
È solo l’inizio di una metanarrazione nidificata che sposta continuamente il punto di vista aggiungendo figure narranti in un continuo passaggio tra racconto, mockumentary, allegoria e storia politica Iraniana, dove il movimento tra interrogatorio e fatti, testimonianze e simbologie inafferrabili, sembra avere lo scopo di ripercorrere la storia del paese e il percorso verso la repubblica islamica.
Per il suo quinto film Mani Haghighi sceglie una forma patinatissima e artificialmente post moderna e allo stesso tempo la neutralizza in un incastro di metanarrazioni difficilissime da comprendere, introducendo una serie di derive narrative tra le quali spicca quella del nonno dello stesso Haghighi, Ebrahim Golestan, regista del nuovo cinema iraniano alla fine degli anni sessanta e di cui vediamo alcuni estratti da “The brick and the mirror”. Allo stesso tempo, in questo film afflitto da godardismi di maniera è lo stesso Haghighi a comparire davanti alla macchina da presa in tutti quei segmenti dove le interviste in stile mockumentary emergono dal nulla all’interno del film.
Lo scopo, come dicevamo, è chiaramente quello di raccontare un Iran che non conosciamo, legato alle contro culture, all’influenza dell’occidente prima della rivoluzione e al clima di controllo paranoide che lo Scià aveva allestito in Iran.
Assolutamente ricco, ma allo stesso tempo reso inerte da una totale mancanza di controllo sul materiale.