[Leggi anche La recensione di Abacuc di Sofia Bonicalzi]
Realizzato da Luca Ferri in Super 8 e prodotto da Lab 80 film, presente al TFF32 sezione Onde, Abacuc è il nome del suo protagonista unico (Dario Bacis), un corpo enorme di quasi 200 chili che entra remando sulla superficie piatta e immobile di uno specchio d’acqua.
Lago, laguna, stagno, non sappiamo, la barchetta è un guscio di noce sotto la massa sferica dell’uomo. Spinta dai remi cambia continuamente direzione, l’uomo ha uno sguardo assente e impassibile, potrebbe fare qualunque cosa con la stessa noncuranza.
Cambio di scena, ora Abacuc è su un lungo ponte mobile teso a pelo d’acqua. Arriva in fondo e torna indietro, stesso sguardo inerte, stesso procedere senza sosta e senza senso.
Per tutta la durata del film quello di Abacuc sarà un andirivieni talmente insensato da risultare addirittura inquietante. La sua distanza attonita, l’assenza di una pur minima motivazione al suo muoversi continuo, ballonzolante sotto il peso immane del corpo, costringono a chiedersi: dov’è? perché? cos’è? Difficile accettare una così dichiarata gratuità del gesto.
Siamo al ribaltamento del deleuziano: “È il tempo, il tempo in persona, un’immagine/tempo diretta, che dà a ciò che cambia la forma immutabile nella quale si produce il cambiamento”.
Abacuc è gesto puro, anti-immagine/movimento e anti-immagine/tempo, azione priva di tensione dinamica e pertanto destoricizzata. Non è neppure immagine/sogno, metafora, simbolica rappresentazione di alcunchè.
Il personaggio e gli oggetti che si alternano sulla scena non sono posti in alcuna relazione reciproca, Luca Ferri scompiglia di proposito ogni logica compositiva, vanifica sul nascere ogni tentativo dello spettatore di creare raccordi plausibili fra parole, suono, immagini.
Questo straniante surrogato di uomo, sopravvissuto ad una non meglio identificata catastrofe che ha svuotato il mondo intero, addirittura portatore di un nome celebre, il profeta biblico che osò chiedere ragione a Dio della sua assenza: “Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!”e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?”, si muove in spazi incoerenti fra loro, alterna camminate dentro e fuori mostruosi casermoni di periferia o antichi palazzi del centro storico, si affaccia da una finestra e alza senza mai parlare la cornetta di un telefono posto sul davanzale.
Una voce femminile, evidentemente alterata, ripete all’altro capo, in loop martellante, frasi incoerenti ed esilaranti del tipo: “Sono la Marchesa di Montetristo, volevo dirle che chi ascolta jazz eiacula precocemente” o “Santo Diavolone, un ensemble jazz è al tempo stesso un meccanismo per castrare e per fottere”.
Abacuc cammina e ancora cammina, a volte con un libro in mano, a volte senza, a tratti si siede e sfoglia le illustrazioni o si appoggia ad un braccio e intona un Kyrie eleison che è un vero spasso.
Con un piccolo berretto in testa fuori misura o con un’ assurda parrucca femminile, è del tutto indifferente all’aria che gli gira intorno, impregnata di voci che in un rap indiavolato inventano strofe insensate: “leggo Lacan/ vado in montagna” o “ leggo Adorno/guardo film porno”, o proclamano a ripetizione la morte di Stravinsky e Schönberg , o ancora stravolgono testi di pezzi d’opera famosi (un zumpappà, zumpappà, zum dedicato alla Traviata è il più divertente e centrato).
Fotografie d’altri tempi, sfocati ritratti in bianco e nero da salotto di nonna Speranza, appaiono e scompaiono in flash veloci, in fulmineo contrasto con la fissità glaciale delle riprese dal vivo. I passaggi temporali sono annullati dalla comparsa improvvisa di distese innevate là dove un attimo prima si friggeva nella canicola, lo spazio non sembra avere più alcuna rilevanza, a meno che non si tratti di un cimitero.
E’ il luogo prediletto, lunghi filari di fornetti sommersi di lumini e fiori tornano a più riprese, il luogo è il cimitero di San Michele a Venezia, filmato con precisione estrema dalla barca che gira intorno al muro di cinta nella foschia lagunare (foschia che, poi ci si accorge, è solo l’obiettivo appannato della camera).
Sepolture illustri in un illustre cimitero convivono con il calco in gesso di accecante biancore della testa tonda di Abacuc, appoggiata qua e là su tombe a terra a mò di Buddha, mentre le lapidi di Stravinsky e della moglie Vera faranno bella mostra di sé in un primo piano che chiuderà il lungo giro mortuario.
Superate le prime perplessità allo spettatore non resta che prendere atto e incamminarsi con Abacuc, stupore e divertimento possono convivere in perfetta sintonia, come il godimento che le musiche originali del Maestro Dario Agazzi assicurano all’udito.
Scorre, dall’inizio alla fine, una stralunata vena satirica che affida al gioco linguistico e visivo un significato che solo la forza del teatro del comico riesce ad avere, libero com’è da pesantezze censorie e cervellotiche decodifiche.
Meglio di chiunque, allora, sarà l’autore, intervistato a Torino, a dare la giusta chiave di lettura:
“Abacuc, o Dario Bacis, come lo si vuol chiamare, ha una forza visiva unica, sembra un dipinto di Piero della Francesca. È il mio ecce homo, un individuo capace di condensare in sé il senso stesso del film: una riflessione sulla condizione del cinema come mezzo espressivo. In quanto sopravvissuto alla catastrofe, che vive nel continuo inseguimento di nulla, Abacuc rappresenta il bisogno dell’arte cinematografica di autoestinguersi e implodere in sé stessa. Non può essere che così, visto il suo stato oggi”