Africa Addio è l’immagine di un popolo sedotto e abbandonato. L’Africa a cui sono stati forniti i mezzi, ma non il giusto modo di adoperarli. Una fusione culturale dall’effetto inquinante più che arricchente. Il documentario mondo movie del duo Jacopetti/Prosperi è un commiato a quella purezza e a quella genuinità dell’essere umano, a quello status preesistenze all’istituzione e alla morale. Una morale che non accetta mutamenti, e che si impone con la foga monopolistica, propria di una società industrializzata.
Un tema questo che fu largamente trattato, in quei turbolenti anni 60, trovando in autorevole voci la propria divulgazione mediatica. Delle piacevoli e spiacevoli conseguenze del post-colonialismo africano guardò con occhio poetico Pier Paolo Pasolini, con il suo tentativo di rivisitazione e ricontestualizzazione in territorio africano di un’opera classica come l’Orestiade di Eschilo, attraverso una vera e propria raccolta di appunti video che andarono a comporre il documentario/block notes Appunti per un’Orestiade africana (1970). La domanda che l’autore si poneva assumeva in realtà un valore pretestuoso, quasi nascondesse come reale intento quello di raccontare la svolta di una società – come fu per quella greca nel passaggio dalla Ghenos alla Polis – che passa attraverso un distacco dell’uomo dal volere divino e l’istituzionalizzazione del potere legislativo, puramente umano, terreno.
Allo stesso modo Africa Addio, di poco precedente, ripercorre queste fasi evolutive di una società contaminata e lasciata alla deriva, all’autodistruzione. Con l’efficienza dell’antropologia visuale ed un ottimo lavoro di montaggio, il documentario condensa gli stadi di ammorbamento del popolo africano attraverso un susseguirsi di gesti ideologici: mani che si sollevano a pugno chiuso, saluto romano a braccio teso, dita scosse in segno di dissenso; mentre leader africani in abiti borghesi occidentali ed in posture dittatoriali, erompono sulla folla esortazioni alla rivolta e fedeltà ad ideali che non possono comprendere. Un veloce susseguirsi che rispecchia l’accelerata fase di occidentalizzazione, che ripercorse in pochi anni ciò che il continente europeo subì in un centenario.
È l’eredità che l’occidente ha lasciato alla nascente società africana imborghesita: i propri secoli di storia. Come se l’Africa non ne avesse già di suoi. Ed ecco che il continente più antico della storia vede cancellarsi la propria identità. “Addio Africa”, ci dicono i due reporter antropologi, un addio che suona come sconforto nostalgico per una condizione dell’uomo che mai più tornerà.
Ciò che ci mostra l’agile cinepresa sono volti ripresi in piano ravvicinato, invadono lo spazio con lo stesso sguardo incosciente, mossi da una moda occidentale di cui non ne conoscono l’origine; proprio come l’incipit di Mondo Cane, in cui uomini virili dai capelli imbrillantinati, emulavano l’idolatrato Rodolfo Valentino, da poco scomparso. Jacopetti/Prosperi ripropongono questo punto di vista, per esprimere una similare disumanizzazione che traspare dai vacui sguardi di quegli uomini di cui non restano altro che i corpi. Corpi invadenti quanto inutili, abbandonati sui cigli delle strade, dati in pasto alle guerre intestine e per sempre dimenticati. «Morirono per niente e per nessuno. Da una parte e dall’altra l’Africa non ha caduti, ha soltanto cadaveri», è il commento in sottofondo a queste tragiche immagini.
Ma quello di Africa Addio è un tono tragicomico. Un approccio di certo non etnografico. Un racconto che procede su un’intonazione dal gusto ironico, e non proiettandosi nel punto di vista indigeno. Un metodo che ricorda il sarcasmo critico di Bunuel nel suo unico documentario Las Huerdes (1933) . Ma quello di Jacopetti/Prosperi è anche un gioco di risemantizzazione, coadiuvato dall’essenziale contributo di Riz Ortolani, che con le sue musiche onomatopeiche dona al contesto un’estetica fumettistica (come sarà ancor più forte in La donna nel mondo) e rimanda a quei toni epici e celebrativi delle musiche di Elmer Bernstein.
La caccia alla volpe, organizzata dall’aristocrazia contadina degli africani bianchi, è infatti rappresentata con un sottofondo celebrativo, dal retrogusto canzonatorio: trombe squillanti che ricordano il capolavoro di Sturges I magnifici sette (1960). E sempre al western è il riferimento nel rappresentare il ritiro dei contadini boeri dalle terre africane che, in un viaggio a ritroso verso le loro terre d’origine, procedono in un corteo di carovane, staglianti in controluce al tramonto. Un’immagine di pura estetica western, che ricorda i viaggi in solitaria nelle desertiche lande americane.
Ma le distese aride, questa volta, sono quelle della savana. Un luogo depredato dalla sua aura sacra; habitat delle creature che incarnano quel potere e quel fascino che da sempre ha gravitato intorno al continente nero: il leone, che nella visione ironica del documentario assume valore metaforico, un riflesso di quell’evoluzione deturpante verso cui si avvia l’Africa. «Così col tempo, l’antico re della foresta, nomade e indipendente, è diventato un pensionante taccagno e dalle abitudini borghesi, costretto a dipendere la bistecca da chi fino a ieri non avrebbe mai osato avvicinarsi». Tutto è mutato, tutto è perso. Anche l’ultimo uomo genuino si avvia verso la fatale omologazione in un processo di cosmopolitismo dagli effetti aberranti. «Quel luogo dove era ritenuto sacrilego persino parlare a voce alta, ora invaso dall’uomo con il suo fucile», ripetono i due reporter lanciando un ultimo sguardo alla miriade di corpi ammassati su quella terra ormai non più sacra.
Date tali ingenti premesse intrinseche al film, al lavoro non resterebbe nulla da aggiungere. Il DVD di Africa Addio che ripropone la nuova edizione Mustang Entertainment è infatti sprovvisto di contenuti extra. Nonostante sarebbe stato curioso conoscere i retroscena che portarono alla realizzazione dell’opera, una fruizione ripetuta, essenziale e semplice, può forse avvalorare maggiormente quel percorso che Jacopetti e Prosperi affrontarono, tra pericoli e disavventure, spinti da una ricercatezza estetica più che giornalistica, al fine di creare un prodotto valido ed efficace quale infatti è questo “documentario”.