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Anarchia – La notte del giudizio di James DeMonaco: la recensione

James De Monaco per il secondo capitolo della sua (per ora) mini-saga sull’immaginario giorno della purificazione inaugurato dai nuovi padri fondatori degli Stati Uniti, ha sostanzialmente invertito i fattori del primo film distribuito nel nostro paese con il titolo de “La notte del giudizio“. Se “The Purge” si ambientava nell’abitazione di una famiglia nucleare diventata improvvisamente un “precint” per difendersi dalla violenza esplosa per le strade, questo nuovo “Anarchy” si inventa una coesione famigliare a partire da un gruppo di individui forzati dalle circostanze a far squadra nello spazio eterotopo della città. Dalla casa come area di protezione violata ci si sposta all’esterno in uno scenario apocalittico che ancora una volta sembra riferirsi al cinema di Carpenter (Escape from New York) a quello di Walter Hill (The Warriors) e per certi versi anche alla sintesi di alcuni titoli exploitativi girati da Jack Hill (Switchblade Sisters).

Come nel primo film torna la presenza ossessiva dei dispositivi di controllo audiovisivo questa volta al servizio di una diversa funzione; i sistemi a circuito chiuso non erigono una membrana protettiva tra l’interno e l’esterno, ma diventano occhi onniscenti che minacciano la libertà degli individui come nella peggiore distopia Orwelliana. Il film si svolge un anno dopo il precedente giorno della purificazione e i meccanismi che regolano questo carnasciale ultra-violento sono gli stessi: per dodici ore all’anno, tutta la popolazione Americana può dotarsi di armi, ad eccezione di quelle classe 4, per sfogare i propri istinti di violenza. L’omicidio diventa legale, tranne per i membri del governo che continuano a godere di privilegi immunitari. Mentre per le strade si manifestano episodi di efferata violenza, la popolazione che non vuole partecipare al massacro si barrica in casa come può.

Più che nel primo episodio De Monaco punta alle conseguenze sociali dell’evento, sottolineando il divario economico tra diversi strati economici della comunità Americana e l’impossibilità di allestire una difesa adeguata da parte della popolazione più indigente. Questo aspetto viene esplicitato da due elementi in particolare, il primo è legato alla cameriera Eva (Carmen Ejofo) e a sua figlia Cali (Zoë Soul), costrette a fuggire per le strade dopo che il vecchio padre (John Beasley) si è consegnato volontariamente ad una ricca famiglia della zona come vittima sacrificale in cambio di una somma consistente che dovrà servire in futuro alle due donne per garantirsi una protezione più adeguata. Il secondo elemento è rappresentato dalla figura interpretata da Michael K. Williams, una sorta di via di mezzo tra Il Che e Malcolm-X che comincia a comparire come un’interferenza di segnale nelle trasmissioni governative ufficiali, per spingere il popolo delle classi più disgraziate a riscattarsi con una guerriglia urbana. Su queste premesse De monaco costruisce una quest attraverso le strade di una città sotto assedio, facendo man bassa di tutto quel cinema di genere tra la seconda metà dei settanta e i primi anni ottanta che si serviva del contesto urbano per delineare una visione post-apocalittica.

Vengono in mente, oltre alle fonti citate, titoli come Rollerball e Soylent Green, deprivati di una qualsiasi idea visionaria. Perchè se De Monaco si trova onestamente a suo agio nell’organizzazione dello spazio urbano come luogo di un continuo spostamento del centro dell’azione, sembrano venir meno tutte quelle piccole aperture verso lo sguardo, che la chiusura del precedente film sembrava conservare nel rapporto concreto e simbolico tra interno ed esterno. Più interessato ad una tiepida parabola umana, con l’inserimento del personaggio guida, il sergente interpretato da Frank Grillo, scheggia impazzita a metà tra la vendetta e il senso paterno di coesione del gruppo, si perde a poco a poco in un pasticcio divertente ma senza alcuno spessore, se non quello di una ripetizione stanca di alcuni modelli ricalcati ad un livello semplicemente quantitativo con la proliferazione di personaggi bizzarri, e una “freakerie” di superficie che sostituisce un vero e proprio discorso sullo sguardo con l’effetto sorpresa; basta pensare a come spesso sdipana l’azione attraverso una serie di slittamenti forzati che cambiano quasi sempre la prospettiva senza che questa cambi realmente il nostro modo di guardare. In questo senso c’è tutto il peggio delle produzioni Blumhouse, piccoli oggetti nostalgici di arredamento. A conferma di un semplice rovesciamento della formula, i titoli di coda del film, costruiti con la stessa strategia che mistifica found footage e formati a bassa definizione, sono identici ai titoli di testa del primo film, che erano accompagnati dal Chiaro di Luna di Debussy (qui invece c’è il solito metal-core d’accatto); nonostante tutto rimangono i momenti migliori è più stimolanti del film di DeMonaco.

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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