Elizabeth (Astrid Whettnall) è una moglie e una madre devota; il culto cristiano è il centro della sua vita, per lei che è così vicina alla Chiesa, fare radio è una forma di apostolato importante, nel suo show condotto insieme a padre Achille, riceve le telefonate di persone confuse, pecorelle smarrite, gente a cui la fede non basta a render la vita più sopportabile. Quando durante una delle sue trasmissioni, sarà Jean, il figlio quattordicenne a parlare dall’altro capo del telefono, in una sofferta confessione della sua omosessualità e dell’amore che prova per padre Achille, reagirà bruscamente cercando di soffocare questa rivelazione come se fosse l’intemperanza di un adolescente. Tornata a casa con l’intenzione di strigliare il figlio, sarà costretta a guardare mentre questo si farà saltare il cervello con un arma da fuoco piazzata in gola.
Dopo un prologo filmato come fosse un “ad” per i social media, con due preti che cercano di fare proselitismo a buon mercato, il regista Belga Vincent Lannoo ci conduce direttamente in un’atmosfera cupa e claustrofobica, mantenendo un piede ben saldo nella distorsione grottesca.
La ricerca di Elizabeth rimane in fondo un percorso di fede, dopo aver fracassato il cranio al vescovo in carica, il suo scopo sarà quello di ripulire la chiesa da tutte le aberrazioni, ricavare una lista dei preti pedofili protetti dalla chiesa e andare a stanarli nei loro rifugi clandestini. In parallelo Lanoo ci mostra le attività di una milizia cristiana guidata da un sacerdote fuori dal sistema ecclesiastico; all’interno di questo gruppo Xenofobo dalle caratteristiche Lefebvriane portate ad estreme conseguenze, il padre di Jean perde la vita e il ragazzino stesso, prima di suicidarsi, rischierà di scivolare nell’ultranazionalismo del gruppo, se non fosse per la saggezza di Achille, che Lanoo dipinge da una parte come un pedofilo protetto dal Clero per ragioni diplomatiche, dall’altra come un uomo sensibile capace di amare e di mantenere un contatto con alcuni importanti valori di tolleranza.
Se quindi si avverte il tentativo di rendere complessa la descrizione di un mondo gerarchico alla deriva, grazie anche alla sceneggiatura di Philippe Falardeau, il cui Monsieur Lazhar è film indubbiamente più sottile di questo, Lanoo preferisce mandare tutto in vacca con una tipizzazione didascalica di personaggi e situazioni, corroborata da una violenza ultra-pulp che raramente scalfisce l’immagine.
Se realizzare un film incompromissorio risiede nella ricerca di un simbolismo di grana grossa tutto giocato sull’evidente volontà di costruire dei quadretti eccessivi, allora non ci siamo proprio; il quadretto rimane tale anche se al centro è inquadrata una suora distesa per strada con il cervello spappolato. Au nom du fils ha tutti i limiti del fumettone anarco-punk che non esce dai confini della vignetta efficace; una via che poteva essere interessante a patto di rendere il tutto più disturbante, estremo, senza limiti; al contrario c’è un tentativo pesantissimo di ingabbiare il film in una pseudo-poeticità di tipo “pittorico”, come nella discutibilissima sequenza finale che vorrebbe regalarci uno sguardo “inedito” sul rapporto tra fede e natura, e al contrario, risultando tremendamente chiara e senza alcuna zona d’ombra, ci mostra ancora una volta Elizabeth come il personaggio più rigido e inerte di tutto il film; illusa per una vita da un livello delle fede che Simone Weill avrebbe chiamato “molle”, rifiuta ancora una volta il “Malheur”, e quando si troverà ad occupare l’altra parte della barricata, il dogmatismo sarà quello di sempre.