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Avengers: Age of Ultron di Joss Whedon: la recensione

Sembra proprio che l’immagine allo specchio di Tony Stark (Robert Downey Jr.) sia qualcosa di più di una violenta manifestazione della Hýbris radicata nel suo creatore; Ultron è anche il risultato di un innesto riguardo al quale si era già parlato per Guardiani della Galassia e più recentemente, Big Hero 6; il primo in particolare condivide con quest’ultimo Avengers la produzione dell’ormai “veterano” Kevin Feige, il cui meta-mondo ha ormai dato origine ad una mutazione del concetto di franchising con una serie di tappe stabilite, dalle enormi potenzialità combinatorie.

Joss Whedon, che prima di avvicinarsi al mondo Marvel nel 2009 (Astonishing X-Men: Gifted) aveva bazzicato come sceneggiatore la Pixar, le animazioni di Don Bluth e infine la Disney con la saga di Buffy, sembra la figura più adatta a pilotare la proliferazione di un mondo ibrido la cui formazione dialoga fuori e dentro il film stesso chiarendo alcuni processi industriali in atto che in qualche modo alimentano nuove possibilità mitopoietiche; Ultron stesso non fa altro che amplificare quel senso di colpa che accompagna tutta la parabola di Tony Stark nei confronti dell’industria famigliare, cercando di riconfigurare l’assetto degli Avengers con l’aiuto di due mutanti che dovrebbero minarne dall’interno l’unità come team, e allo stesso tempo le nuove possibilità creative di un parco di personaggi in espansione rispetto alla sorgente fumettistica, sembra favorito dalle contaminazioni di cui lo stesso Whedon si fa carico, inserendo elementi marcatamente disneyani (lo scettro di Loki, la gemma dell’infinito, la foresta ghiacciata) frammenti dalla commedia sofisticata (il flirt tra Black Widow e Hulk) e puntando a quella ipostatizzazione scultorea del movimento, che proprio nei titoli di coda trova espressione visiva diretta, quasi ad omaggiare il lavoro di industrie come la Hot Toys, la nota factory di merchandising cinese che dal 2000 ha lanciato i migliori scultori creativi di action figures; segno, anche questo, di un continuo meticciato tra forme e mondi creativi eterogenei la cui propaggine visibile è quella della nota fusione tra Disney e Marvel, ma il cui processo di assorbimento è molto più complesso, lo diceva chiaramente Elia Billero nella sua bella recensione di Big Hero 6 (una delle due pubblicate su indie-eye) raccontando precedenti ibridazioni del mondo Disney anche nel contesto videoludico.

Resta da chiarire se Whedon sia in grado di organizzare tutto questo fermento trovandosi nel bel mezzo di una trasformazione in corso; non si pretende certo lo sguardo acuminato e trasversale di James Mangold, ma  Avengers: Age of Ultron ha tutta l’aria di un pasticcio confusionario e a tratti noiosissimo dove la vertigine dell’innesto non riesce a spingersi oltre l’accumulo ipertrofico, basta pensare alla comparsa di Visione, ulteriore mutazione al cubo che va avanti e indietro nel tempo; nato dalle menti di Roy Thomas e John Buscema nel 1968, qui sembra modellato più sull’immaginario del Watchmen di Gibbons/Moore per come l’aveva elaborato Zack Snyder, un cortocircuito che chiarisce le potenzialità interstiziali di un mondo creativo apolide, ma che in questo caso ci consente solo di valutarne effetti, applicazioni, spostamenti, niente di più.

 

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