Quando Paul Williams compare nella parte del “Macellaio” enumerando le qualità di un intero arsenale come se dovesse ripercorrere tutte le possibilità di lavorazione gastronomica del maiale, Edgar Wright applica un timbro al suo personale pastiche. Non è solo l’assorbimento come attore del musicista di Omaha nelle produzioni televisive per adolescenti tra i settanta e gli ottanta, ma anche la sua attività di compositore dove emergono due musical post-moderni seminali, “Phantom of The Paradise” di Brian De Palma e “Bugsy Malone” (Piccoli Gangster) di Alan Parker.
Il regista di “Shaun of the dead”, “Scott Pilgrim” e “La fine del mondo“, accende la miccia di Baby Driver partendo da un vecchio videoclip realizzato per i Mint Royale e costruisce l’intera sequenza di apertura del film sui tempi di “Belbottoms“, l’opening track del quarto album di John Spencer con i suoi Blues Explosion!
E con quei movimenti diastolici, il corpo e i gesti di Baby che si arrestano e riprendeno a pulsare nel gioco mimetico, ne comprende l’estetica e la furia, tra plagiarismo e ripetizione, la “historia de la musica rock” e del cinema popolare, con i pulsanti di un registratore analogico in bella vista. Play, Rew, Ffwd. Stop.
Un incidente letale quando era un bambino, il ricordo sempre vivo della madre cantante, una passione più fisica che filologica per la musica, sempre accesa via iPod per limitare le risonanze dell’acufene e un debito da saldare con il crimine. Baby (Ansel Elgort) è un mago del volante e per i colpi organizzati da Doc (Kevin Spacey) è l’asso nella manica. Ad attrarre la sua attenzione sono il taglio, i tempi, le pause e la precisione dell’attacco. I suoi tentativi di comporre musica sono un’attività diaristica, un’ossessione documentale che diventa ritmo. Imperfetti e senza la luce del talento, quei frammenti vocali disumanizzati e catturati dall’esperienza quotidiana funzionano come schegge di memoria intrappolate nell’inesorabilità del ritmo. Come per la meccanica delle auto, l’utilizzo di vecchi dispositivi analogici, di un multitraccia obsoleto e di altri congegni, mantiene con quei brandelli di suono una relazione tattile che gli consente di decodificare la realtà attraverso un racconto ritmico che allo sviluppo preferisce l’attacco, la ripetizione e la scansione temporale.
Montato come un trailer senza fine, Baby Driver suona insieme alla musica dei Damned, di Jonathan Richman, del Dave Brubeck Quartet, dei Queen (un gioco che continua nella filmografia di Wright), dei Blur, di Martha Reeves, di Barbara Lewis e si manifesta come una variazione sul ritmo, dove le esplosioni, i rumori diegetici, le sirene della polizia, i colpi di arma da fuoco interagiscono con una playlist che imposta il tempo della visione e la dinamica della sequenza, contaminandoli e trasformandoli secondo l’estetica del remix.
L’architettura costruita da Edgar Wright è visiva e aurale allo stesso tempo e a differenza dei giochi fine a se stessi di Quentin Dupieux, la moltiplicazione dello spazio digitale che interessa al regista e musicista francese, lascia il posto alla logica del montaggio e allo spazio ricostruito attraverso i tagli; una contrazione del tempo per come lo conosciamo nel cinema di John Woo, giusto per citare un seme, dove l’elegia e l’umanità dei personaggi emergono dai gesti solo apparentemente automatici dentro il frullatore ritmico, ma anche in una lavanderia, dentro un diner old style, nella pronuncia sbagliata di “T Rex”, nei sogni anni cinquanta del protagonista, nella collezione di audiocassette analogiche, in un tempo recuperabile solo attraverso lo storytelling delle canzoni e nel continuo riferimento alla musica come fuoco per l’anima, tempo parallelo da percorrere “senza un piano che non ho e su una macchina che non ci possiamo permettere“, rispetto alla freddezza disumana della città.
La chiusa “invisibile” affidata alla voce di Walter Hill (l’interprete durante il processo), insieme al cameo di Paul Williams salda il film di Wright ad un’idea di cinema come corsa inesorabile, una danza del tempo, contro il tempo obbligato del racconto.
Ecco che l’autismo di Baby, le sue parole ridotte all’osso, le frasi romantiche ripetute e condotte sul filo di quelle liriche che Debora (Lily James) conosce meglio di lui, hanno una valenza cinetica, ma anche dilatata nel continuum del sogno. La collezione di iPod, più che un vezzo vintage, è per Wright un modo per riferirsi a quel passaggio “formativo” dal walkman alle prime playlist digitali, dove la relazione sensoriale con l’oggetto, sempre più sfocata, ancora sopravviveva a quella conquista contemporanea dello spazio digitale, ai cloud, alla non locabilità delle informazioni e dei propri ricordi.
Se il tempo di quella musica non si accorda con quello della realtà, Baby sospende l’azione motoria, chiede di fermarla insieme al colpo stesso, riparte daccapo, cercando il ritmo giusto; come noi, insoddisfatti fino al momento in cui la manopola di una vecchia radio FM non recupera improvvisamente una sintonia perduta.