Richie non ne può più della vita. Proprio quando sta tentando di farla finita, riceve una telefonata da Maggie, sua sorella. La donna in grave difficoltà, dopo anni senza scambiare una parola con il fratello, si vede costretta a chiamarlo per chiedergli di andare a prendere la figlia a scuola. Richie con riluttanza annulla il suo macabro progetto suicida e va a prelevare la nipote, la spigliata Sophia. Maggie però non ritornerà a casa come aveva promesso e Richie è costretto a prendersi cura di Sophia per tutta la notte
Sviluppato a partire da un corto vincitore dell’oscar 2012 “Curfew”, il film di Christensen è caratterizzato da una buona solidità della costruzione tecnico – narrativa, grazie a montaggio e fotografia di grande effetto, e da un discorso narrativo fatto apposta per funzionare con tutti gli ingredienti del caso, i tic e le idiosincrasie al loro posto, come accade sovente con produzioni di tipo indipendente, in odor di sundance.
La storia di Richie e Sophie, anime vaganti per una new york dalle luci soffuse e scure e popolata da personaggi ambigui e ostili, è un piccolo racconto affettivo che coinvolge l’amore di un’intera famiglia, sarà proprio attraverso questo viaggio urbano e iniziatico che fratello e sorella, una volta distanti, finiranno per riavvicinarsi.
Richie, interpretato dallo stesso regista, è il perno sul quale si concentrano tutte le vicende del film. Sue le soggettive visionarie dovute ai suoi continui tentativi di suicidio, sue le divertenti sezioni comiche che sottolineano la sua personale astrazione dalle cose quotidiane, come segno identificativo dell’eccentricità del personaggio.
Una centralità che rischia di sospingere sullo sfondo gli altri personaggi, corollario alle vicende interiori dello stesso Richie, riducendo per esempio la presenza di Sophie al ruolo di comprimaria per alcuni siparietti che vedono le bizzarrie dello zio sempre al centro, imponendo un ritmo tipico di certo cinema da camera che punta tutto alla resa del bozzetto di insieme di ascendenza post-post-post alleniana.
Il rapporto adulto bambino con risvolti comico drammatici, il montaggio dall’estetica fortemente videoclippara, fanno del film di Shawn Christensen un prodotto godibile ma sostanzialmente legato alla produzione americana indipendente minore, quella che per piacere a tutti finisce per somigliare a niente.