Traendo suggestioni bibliche da Behemot, bestia della zoologia fantastica nell’Antico Testamento che divora “… il cibo prodotto da migliaia di montagne” e ispirandosi all’architettura allegorica delle tre cantiche della Divina Commedia a segnare le tappe di un viaggio metafisico e insieme profondamente immerso nel reale, Zhao Liang costruisce la sua potente visione della Cina contemporanea, gigantesca fucina di sfruttamento del lavoro umano, come scenario di mortale desolazione, totalmente asservito alla logica del profitto.
Documentarista indipendente, Zhao Liang ha lavorato a lungo con la fotografia, la video installazione e la video arte. Provocatore e attivista sociale, protagonista della scena politica cinese per la forte carica libertaria ed eversiva dei suoi lavori, con Behemoth, in concorso a Venezia72, impone con forza la natura fredda e visionaria delle sue immagini, rigorosa costruzione formale da cui promana un’ incontenibile carica emotiva
Film documentario sulla qualità disumanizzante delle condizioni di lavoro nella Cina del boom economico, Behemoth è l’ultimo step, l’unico visibile a Venezia, di un progetto più vasto.
Una mostra, “East Wind e West Wind” (2015) elaborava la frase di Mao Zedong “O il vento dell’Est prevale sul vento dell’ Ovest o il vento dell’Ovest prevale sul vento dell’Est”, mentre l’installazione “Black face, white face” del 2013 aveva per protagoniste facce di operai coperte di polvere di calce vicine alle facce nere dei minatori del carbone:
“Cerco di creare un senso di psicologico collegamento tra questi lavoratori itineranti – spiegava l’artista – nonostante i loro orizzonti differenti e le origini del villaggio di nascita. Indipendentemente da dove provengono, ora abitano lo stesso spazio di duro lavoro, sono esposti alle malattie croniche legate al lavoro, a lunghi periodi di separazione dalle famiglie e a debiti contratti a causa dei bassi salari.”
Liang aveva inaugurato il progetto con il film Petizione (2009), dieci anni a riprendere gruppi eterogenei di lavoratori che protestavano con striscioni e slogan per i loro casi di ingiustizia sociale, di regola finiti nel nulla. La cosiddetta “Corte di petizione” li ascoltava e faceva promesse senza alcun esito.
Con Behemoth lo scenario è definitivamente post-apocalittico, un incubo di impatto visivo spettacolare che inizia con deflagrazioni sotterranee che aprono crateri intorno all’uomo nudo, a terra, raccolto in posizione fetale su una terra spoglia di vegetazione, irta di dirupi artificiali lungo i quali scivola un improbabile gregge. Nel finale le pecore diventeranno di bianco calcare, l’uomo sparirà nel nulla e la sua guida, un Virgilio post-litteram che non ha più nessuna via da indicare, avanza faticosamente trascinando a spalla un grande specchio.
L’uomo è rimasto solo, è un piccolo essere in balia del male che lo divora, trascinandolo nelle viscere infuocate della terra.
A lungo il regista lascia spazio libero al fuoco di ferriere ribollenti, alla polvere di carbone che si addensa in nuvole nere, a lunghe teorie di camion che caricano e scaricano senza posa. La fatica che non conosce sosta di uomini e donne ignora il sole di giorno e la luna di notte, somiglia solo al lamento senza speranza che risuona nei gironi infernali.
Quasi sul finale, una rapida incursione in fetide baracche o luride corsie di ospedale ci mostra gli esiti di tanta bolgia: pneumoconiosi, enfisemi, malattie varie. I polmoni scoppiano, il cuore non regge e si muore.
E quando “uscimmo a riveder le stelle”, la visione accecante di città asettiche, grattacieli colorati, allineati, perfetti, fanno pensare ad un plastico, si fa fatica a capire, ma le didascalie c’informano. Sono tante, in Cina, città così. Paradisi dove tutto è lindo e pulito, aspettano, chissà, qualcuno che vada ad abitarci prima o poi. Ma quei paradisi non saranno mai per i Black face.
Fanno riflettere le parole di commento al film di Zhao Liang:
“Il comportamento umano si contraddistingue per follia e assurdità. Non siamo mai riusciti a liberarci dall’avidità e dall’arroganza, così il viaggio a spirale della civiltà si viene a riempire di deviazioni e regressioni. Sembra di essere posseduti da una forza mostruosa e invincibile, invece siamo noi a creare questa bestia invisibile. È la nostra volontà; siamo al tempo stesso vittime e carnefici. Nella Divina Commedia, Dante attraversa in sogno l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. In Behemoth mi sono ispirato a Dante e ho descritto un’enorme catena industriale, in cui i colori rosso, grigio e blu rappresentano rispettivamente i tre regni danteschi. Attraverso lo sguardo contemplativo del film, analizzo le condizioni di vita dei lavoratori e l’insensato sviluppo urbano. È la mia meditazione critica sulla civiltà moderna, in cui si accumula ricchezza mentre l’uomo perisce.”